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un articolo dell'anno scorso...




REGGIO. IL 26 RICORRE IL 45° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DEI 5 ANARCHICI

SCRITTO DA ROCCO PALAMARA IL . PUBBLICATO IN AGGIORNAMENTICOPERTINECULTURALIBRI E SCRITTORI

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In un mondo rovesciato, dove gli assassini si definiscono  Onorati e i ladri Onorevoli, dubito che le autorità di Reggio si prenderanno la briga di commemorare i cinque Anarchici della baracca, nell’anniversario della loro morte avvenuta 45 anni fa. Eppure essi diedero tutto, anche la loro giovanissima vita, per la città che altri suoi figli “illustri” e osannati depredarono e offesero.  Questi i nomi dei 5 anarchici: Angelo Casile, Francesco Scordo, Gianni Aricò, tutti di Reggio, Annalise Bort, di Amburgo e moglie di Aricò, e Luigi Lo Gelso di Cosenza. Tutti trucidati con un finto incidente stradale sull’autostrada presso Ferentino (FR) la notte del 26 settembre del 1970.
Dei cinque, Angelo, Gianni e Franco erano conosciutissimi a Reggio per la loro squisita personalità e il loro ruolo di primo piano nella scena politica e culturale della città, dove cercarono di incidere con le loro idee innovative ma applicandosi soprattutto nelle cose pratiche e concrete: intervenendo nelle agitazioni, le assemblee e gli scioperi nelle scuole, tipici di quegli anni, e anche nelle lotte sindacali (come quelle con i metalmeccanici dell’Omeca. per non farsi scippare la fabbrica da Reggio); dovendo per giunta vedersela con le squadrette dei fascisti che spadroneggiavano nella città.
Quando nel luglio del 1970 iniziarono le proteste per il trasferimento del capoluogo a Catanzaro, essi cercarono di indirizzare la rabbia della gente verso obiettivi concreti come la mancanza di lavoro e il cancro dell’emigrazione; e quando videro che a prevalere era la demagogia dei vecchi notabili democristiani e poi degli avventurieri neofascisti, continuarono a operare controcorrente esponendosi a pericoli maggiori.  Con i “boia chi molla” di Ciccio Franco, il parapiglia di Reggio capoluogo divenne un paravento per le manovre eversive collegate alla cosiddetta strategia della tensione e al progetto di colpo di stato di Julio Valerio Borghese.
Rimestando nel torbido avvennero allora i peggiori connubi (‘ndrangheta – magistrati –massoneria – servizi segreti, ecc …) e le spartizioni di tutto il depredabile della Calabria, col consenso assenso delle istituzioni.  In quanto crocevia di golpisti, stragisti e ogni specie di assassini, Reggio divenne un terreno minato per i pochi che cercarono di contrastarli come gli anarchici che “disturbavano” e non si piegarono alle minacce e alle aggressioni.
L’occasione per liberarsi di loro si presentò con un viaggio in occasione di una manifestazione di protesta a Roma. Il giorno prima un agente di polizia dell’ufficio politico, amico del padre di Lo Gelso, gli telefonò per raccomandarli di non far partire suo figlio per la Capitale. E questo è solo uno dei segni del fatto che essi erano controllati costantemente e che qualcuno si stava preparando a fermarli in qualche modo. Sarebbe lungo elencare gli altri indizi riconducenti a un assassinio mascherato.  Basti per tutti il fatto (stranissimo?) che l’autotreno, contro cui vennero incidentati con la loro Mini Morris i cinque compagni, era guidato da un tale Aniello alle dipendenze di una ditta riconducibile a Julio Valerio Borghese. Anni dopo un pentito, già ‘ndranghetista e militante in Avanguardia Nazionale, dirà al giudice:  
«Personalmente ritengo che quello dei cinque ragazzi non sia stato un incidente ma un omicidio. E tale opinione è condivisa anche da altri militanti avanguardisti.»
Aggiungendo che a parer suo non fu opera dei calabresi.
Nessuno, naturalmente, pagherà per quella strage; una delle tante impunite.
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Per noi ragazzi del gruppo anarchico di Africo, isolati nella costa jonica, i compagni di Reggio erano una presenza rassicurante e unico riferimento in Calabria.  A volte andavamo a trovarli nella famosa baracca (che era in realtà una palazzina liberty del 1909, piuttosto malandata, appartenuta a Biagio Camagna e messa a disposizione dagli eredi) e, se di passaggio per la SS.106, anche loro venivano da noi per il solo piacere di incontrarci. C’era dunque anche l’amicizia, e pertanto fu anche con un dolore personale che apprendemmo di quello che all’inizio passava “soltanto” per una disgrazia.
Fu con questi sentimenti che la mattina del 28, con due miei fratelli e un alto paio di compagni, prendemmo il primo treno per Reggio andando innanzitutto all’incontro dei pochi superstiti del gruppo della baracca. Tutti insieme poi ci recammo a casa di Franco Scordo il cui corpo avevano già restituito ai genitori.
A quell’ora del mattino trovammo là solo i famigliari con al massimo due o tre altre persone. La bara di Franco, morto a 18 anni, incombeva nel mezzo del piccolo soggiorno a cui si accedeva direttamente dalla strada. Tutta la famigliola era attorno: la madre con cinque o sei tra ragazze e ragazzine dall’altro lato della bara e – quasi in disparte – un uomo sulla cinquantina pallido e silenzioso, dal lato della porta.
In quell’ambiente cittadino – notai – mancava la gran folla dei lutti di paese; e con questo anche le cantilene funebri di greca memoria e le figure mediatiche che, con arte, distraevano dal dolore con parole di conforto. Ma anche là trovai che erano le donne le protagoniste del lutto: la madre declamava le lodi del figlio tra i pianti e nel contempo gestiva il movimento delle persone.  Ad altri ragazzi che rimanevano fuori della porta timorosi di entrare, li chiamò lei a farsi avanti:
-   Siete gli amici di mio figlio, venite …
    E poi, indicando l’uomo rannicchiato da un lato:
-  É il padre!   Date le condoglianze anche a lui!
Piangendo raccontava di quando, dopo l’ultima aggressione in cui era rimasto ferito, rimproverava il figlio per quella sua militanza anarchica pericolosa, dicendogli:   “ Perché corri tutti questi rischi per la gente; che ti danno poi a te le persone? “ . E della sua risposta: “ Ma io non voglio nulla dalla gente, sono contento di fare qualcosa per loro!”
A interrompere un po’ quello strazio, e il senso anche di umiliazione di noi compagni,  arrivò a un certo punto un uomo (credo inviato dal Comune) per chiedere ai genitori se acconsentivano al funerale solenne nel Duomo per tutte e 3 i deceduti insieme. Era la norma per le grandi disgrazie e loro, dopo essersi brevemente consultati, risposero che si poteva fare. Percepii nel gesto che ciò era inteso come l’occasione unica di compartecipazione tra le famiglie dei morti, e del loro figlio un “dono” reciproco con la città. Non sapevano però di andare incontro ad una cocente delusione poiché l’iniziativa si scontrava, più che di altri, con l’ostilità dei religiosi. Ciò a partire forse dallo stesso vescovo Mons. Giovanni Ferro,  corresponsabile (perlomeno) del comportamento del parroco della Candelora, suo sottoposto, che si rifiutò persino di accettare nella “sua” chiesa il feretro di Gianni Aricò, perché anarchico.  Al dunque niente funerale solenne e ciascuna famiglia lo fece per i fatti suoi.
Per l’ultimo saluto in modo unitario (e a modo nostro) tutti i compagni della sinistra cosiddetta extraparlamentare  andammo ad attenderli con le bandiere all’entrata del cimitero di Condera, e quando finalmente tutte le bare arrivarono nello spiazzo sulla collina l’avvocato Pino Morabito fece l’orazione funebre.
A distanza di tanto tempo qualche male informato scriverà che in quell’addio inconsueto e dal forte valore simbolico c’era una gran folla di 5.000 persone. Ma non è vero! Un tale numero di partecipanti sarebbe stato possibile solo se il Partito Comunista (antenato del PD) avesse mobilitato i suoi, e che non fece.
Eravamo perciò al massimo in duecento giovani tra anarchici, maoisti e comunistirossi delle varie sfumature. E c’erano anche (contro ogni consuetudine tra opposte ideologie) alcuni giovani fascisti del rione Marconi, lo stesso di Franco Scordo. In quanto suoi compagni d’infanzia, il giorno prima ci avevano fermati per chiederci il permesso di venire anche loro al funerale. Non concesso, vennero lo stesso (permesso o non permesso), e senza che nessuno tentasse di allontanarli fu quella una delle poche cose sagge e belle di quel triste giorno di 45 anni fa.

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