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ARTE JUGOSLAVA


ARTE JUGOSLAVA. TERZO SPAZIO


Prima rottura partigiana: dal realismo socialista alla sua dismissione 
La Jugoslavia ha visto abbattersi sulla propria storia una doppia damnatio memoriae. Dannata, dapprima dal blocco sovietico e dal blocco occidentale, in quanto “porta del capitalismo” per gli uni e “satellite dell’URSS” per gli altri, è stata definitivamente perduta all’oblio storico con il crollo e le guerre degli anni Novanta.

Numerosi equivoci ci sono stati durante il processo di costruzione identitaria e invenzione della tradizione dopo la Federazione Jugoslava, non solo storici, politici e culturali, ma anche nel campo dell’arte. L’obbiettivo di questo articolo è restituire le esperienze artistiche del “Progetto Unitario Jugoslavo” in tutta la sua portata di anticipazione e comprenderle nel loro contesto storico-politico fino alla loro deriva nichilista e nazionalista.

Pochi tentativi di questo genere sono stati avviati in questo senso per la complessità dell’argomento. L’originalità del nostro contributo sta nel mostrare alcuni ambiti, i più innovativi, del percorso artistico senza mai perdere di vista le circostanze storiche, politiche e sociali che li hanno generati.
Non ci sarebbero mai state esperienze di rilievo internazionale come EXAT51 e Nove Tendencije o architetti come Vejnceslav Richter e Bogdan Bogdanović,  scultori come Dušan Džamonja e Vojn Bakić senza l’ampia libertà di sperimentalismo artistico sostenuto da una precisa volontà politica di costruire un socialismo autogestionario e una alternativa alla logica binaria della guerra fredda che chiamiamo “Terzo Spazio dell’Arte Jugoslava”.
L’interpretazione storica qui sostenuta è in parte quella definita da Gal Kirn in “Partisan Ruptures”, in base alla quale si individua una sequenza precisa di ”rotture storiche” come tutto ciò che ha avviato e segnato il percorso della Federazione Jugoslava. Dalla Resistenza alla Rivoluzione Socialista, dalla costruzione del socialismo autogestionario alla fondazione del Movimento dei Paesi non Allineati. Con Gal Kirn riteniamo per sequenza di rotture storiche, non una politica casuale, ma indirizzata volutamente verso l’auto-fondazione. Per Kirn “L’inizio di qualcosa di nuovo, sostenuto da null’altro che dalla rottura stessa”.
Il termine “rottura” è da Kirn ripreso da Althusser. Tuttavia, se nel filosofo strutturalista francese il termine è quasi esclusivamente da intendere in senso teoretico nell’autore sloveno è applicato alla pratica politica. Basandosi sulla unicità dell’esperienza jugoslava fonda il concetto originale di “Partisan Rupture”.
Althusser definisce “unità di rottura” “un’enorme accumulazione di contraddizioni eterogenee” che tuttavia si fondono. Nella storia della Jugoslavia socialista tale “unità di rottura” è costituta da spinte eterogenee: dal Movimento di Liberazione alla Resistenza, dalla Rivoluzione all’Autogestione. La rottura non è da intendersi come una interruzione storica compiuta, ma al contrario come un processo storico volutamente aperto a nuove rotture e aggiustamenti. L’introduzione dell’autogestione è all’origine di un processo rivoluzionario che ad avviso di Kirn: “produce e continua le conseguenze materiali della rottura”. E così come similmente nelle parole di Edvard Kardelj: determinando le nuove coordinate della realtà materiale sin nei rapporti tra persone.
La Jugoslavia era più di altre situazioni politiche globali “surdeterminata” nel suo principio stesso. Non solo perché ha lottato senza tregua per auto-fondarsi, ma anche perché ha avuto, allo stesso tempo, opportunità e contingenze spesso non favorevoli che hanno avuto buon gioco nel suo progetto.
Nel 1948, anno della rottura con l’Unione Sovietica non mancavano all’interno della Jugoslavia visioni differenti, se non in conflitto, in politica, economia cultura e arte. La rivoluzione compiuta nel 1945, con la fine della seconda guerra mondiale, stabiliva un nuovo inizio, la necessità di bruciare i ponti e rompere con tutto il passato: la monarchia, il fascismo, lo stato borghese. Nel campo dell’arte il linguaggio del realismo socialista bloccava il cammino sperimentale. La circostanza, in Jugoslavia, che obbligò all’adozione del realismo socialista, era stata la necessità di aderire durante la guerra a un blocco compatto antifascista che finì per travolgere ogni altra forma d’espressione artistica. Così, ad esempio, uno dei massimi esponenti del Gruppo Surrealista di Belgrado, Konstantin “Koča” Popović, contatto con il Gruppo di Parigi e di Spagna, decise di convertirsi.
Dalla letteratura all’arte visuale, l’adesione al Partito -“Partinost”- alla Classe –“Klassovost”- e alla Verità –“Pravdinost”-, rappresenta il paradigma attorno al quale si struttura il linguaggio espressivo dell’immediato secondo dopoguerra jugoslavo, qui arricchito ulteriormente dal concetto jugoslavo di “Vittoria” –“Pobieda” Il Monumento all’Armata Rossa di Antun Augustinčić e Mladi Galić a Batina, in Croazia, sancisce nel 1947 questo spirito di adesione al comunismo sovietico, di riconoscenza e amicizia. Il monumento recupera il linguaggio classico della Rivoluzione Francese e realista dello stalinismo allo stesso tempo, come formalizzato nel Congresso degli scrittori di Mosca nel 1934. Va rilevato che la disposizione dei partigiani sotto l’obelisco sembra rappresentare la mancanza di equilibrio nei rapporti tra la Resistenza Jugoslava e l’URSS, già evidenti dal 1943 con la dichiarazione d’indipendenza jugoslava dall’ANVOJ e mai fino in fondo accettata da Stalin. Un equilibrio difficile tra adesione e differenziazione che vedrà la dismissione graduale di quel linguaggio estetico e simbolico. Il giorno dopo la rottura con l’Unione Sovietica, nel 1948, agli jugoslavi, attraverso la pubblicazione sul giornale “Borba” -“Lotta”- dei documenti e del carteggio relativi allo scontro tra Tito e Stalin, viene chiesto se appoggiare Tito e il suo gruppo o sconfessarli consegnandoli.

La maggioranza degli jugoslavi, che avevano combattuto nella Resistenza nel nome di Stalin, letteralmente sconvolti, confermano Tito e i suoi e la seconda “rottura partigiana”.

Immediatamente, nell’arco di pochi anni vengono liberate le forze politiche e culturali necessarie ad avviare un corso inedito sperimentale per dare forma a un socialismo differente. Già durante i lavori del Congresso del Partito Comunista post-rottura viene comunicata in via informale da Milovan Đilas l’intenzione di sottrarre l’arte dal controllo del partito e dalla censura. Nel 1950, intanto era stata emanata la prima legge per l’autogestione che aspirava al superamento dello Stato. La Jugoslavia si struttura in Federazione e si indirizza a gestire un difficilissimo equilibrio tra il potere federale e le Repubbliche. Il Partito Comunista prende il nome di Lega dei Comunisti, rinuncia al potere di controllo centrale per prendere quello di indirizzo politico. Il timore pressante di un’invasione sovietica colloca la Jugoslavia in una zona di mezzo da cui smarcarsi, un paese socialista non allineato né con la NATO né con Stalin. Dal 1953, proprio su iniziativa jugoslava, iniziano i lavori diplomatici per la creazione di un’alleanza mondiale di paesi fuori dalla logica binaria della guerra fredda. Promuovere la rinascita, la libertà, l’internazionalismo e l’indipendenza in quel contesto significava reintrodurre nel linguaggio artistico una nuova estetica e un nuovo stile. Ritrovare le avanguardie e il modernismo pre-bellici, nonché le semantiche native e aprirle all’apporto internazionale, non attendere una storicizzazione artistica da parte di critici e storici dell’arte, ma auto-storicizzarsi inserendosi in un percorso rivoluzionario consapevole di sé.
Seconda rottura partigiana: autogestione e l’arte dei memoriali
La sperimentazione artistica investe anche il suo ambito più tradizionale: i  memoriali. Oggetti artistici nei quali da questo momento in poi verrà incorporata la memoria delle rotture partigiane e rivoluzionarie.
La vita associata jugoslava con l’emanazione della prima legge sull’autogestione nel 1950, si trasforma gradualmente in un vero e proprio laboratorio politico in continua evoluzione a tutti i livelli, mettendo in circolo quel che era stato già enunciato da Edvard Kardelj, il teorico dell’autogestione: la volontà di estendere l’auto-organizzazione in ogni settore della vita quotidiana: dalle fabbriche agli uffici, dalle scuole alle università, fino alle stesse relazioni sociali. Nelle sue parole l’autogestione avrebbe dovuto essere un processo di “profonda rivoluzione culturale ed etica sin nelle coscienze di ognuno”.

Il numero impressionante di memoriali costruiti in questo nuovissimo contesto, in aree remote dove si erano svolti la maggior parte degli avvenimenti, soprattutto della seconda guerra mondiale e della rivoluzione, erano richiesti e commissionati per lo più localmente e, in misura sempre maggiore, autofinanziati, di pari passo con lo sviluppo del sistema dell’autogestione.

Bandi e assegnazioni seguivano un percorso molto democratico e partecipato, diversificando le forme di selezione: dai concorsi spesso anonimi alle assegnazioni dirette, il tutto trasparente e pubblicamente dibattuto. Agli artisti fu offerta la possibilità di farsi conoscere, proponendo il proprio stile e la propria estetica liberamente, l’incontro innovativo e interdisciplinare di idee e tecniche, portò a risultati spesso ibridi e imprevedibili. I memoriali divennero, da subito, il Terzo Spazio dell’Arte per eccellenza della Jugoslavia. Un paesaggio di oggetti artistici diffuso che trasformò i territori della Federazione in un museo “en plein air” a una scala urbano-rurale che non si ripeterà mai più.
I memoriali jugoslavi già dagli anni ’50 operano una rottura con la tradizione e il lessico del monumento, coinvolgendo il paesaggio attraverso l’intervento di urbanisti e architetti per la progettazione di parchi pensati appositamente. Il soggetto, percorrendo gli spazi di questi parchi e attraversando il luogo del memoriale, viene provocato a ricostruirne il senso, mancando il lessico tradizionale in favore di una rappresentazione emozionale, articolata e astratta. È proprio questa mancanza di un linguaggio particolaristico che aspira all’internazionalismo dell’arte jugoslava, a rovesciare il paradigma del rituale passivo verso l’opera e spingere il visitatore a formularsi interrogativi sulla memoria stessa senza cristallizzarla.
L’architetto e urbanista Edvard Ravnikar e lo scultore Boris Kalin, con i loro piccoli solidi funerari, hanno assemblato, tra il 1952 e il 1953, il Memoriale dei Prigionieri a Begunje in Slovenia. Si tratta di un complesso di elementi a terra attraversabile ed essenziale. La riunione dei solidi in granito, in gruppi di estensioni diverse lungo il parco, percorribili tramite sentieri, sono stati progettati esattamente come i piani urbanistici di Ravnikar di città policentriche. Piani che presentò anche a Zagabria nel 1958 in occasione dell’esposizione “Famiglia e Familiare” – “Porodica i Domaćinstvo”.- I solidi, come le unità residenziali, si sviluppano ad altezze gradualmente diverse man mano che si accede ai sentieri secondari. Qui, gli elementi del memoriale, visitabili come fossero una città, si aggregano esattamente come le unità con abitazioni unifamiliari nei differenti centri progettati dall’urbanista sloveno.
Nel “Fiore”, realizzato tra il 1959 e il 1966, opera in memoria del Campo di Concentramento Ustascia di Jasenovac, al confine tra Croazia e Bosnia, Bogdan Bogdanović interviene sul terreno realizzando delle piccole colline sui punti in cui erano collocate le baracche dei deportati.
Il fiore in cemento è in equilibrio con il paesaggio e l’atmosfera del luogo attraverso alcuni accorgimenti dell’architetto e urbanista serbo: le traverse in legno dei binari vengono decostruite e riutilizzate per segnare il percorso verso il fiore, che offre nuovo senso di rinascita in un logo di morte.
Un percorso emozionale simile è proposto sempre dallo stesso Bogdanović nella Necropoli di Kruševac in Serbia, realizzata tra il 1960 e il 1965, che propone un percorso di liberazione spirituale rappresentato da volatili in pietra di grandezze diverse, eppure disposti in una prospettiva schiacciata tale da creare un effetto ottico e da apparire tutti della stessa dimensione. Il terreno artificialmente avvallato e puntellato da queste opere come nella successiva Land Art è pensato per la sosta ludica e l’attraversamento.

In quegli anni, la scultura memoriale segna un passaggio di paradigma, il linguaggio divenne sempre più articolato e diversificato, raggiungendo presto forme avveniristiche, tanto che addirittura gli viene ora attribuito in maniera storicamente errata di essere la traduzione monumentale del Brutalismo.

Inoltre, dalla comparazione delle opere, è evidente che i memoriali jugoslavi, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, siano stati una fonte d’ispirazione centrale per l’anti-monumentalismo tedesco degli anni Novanta. È accertato che vi furono rapporti e scambi internazionali e che artisti jugoslavi come Bogdan Bogdanović, Vojin Bakić e Dušan Džamonja vinsero premi internazionali avendo anche commissioni dirette in Europa, in particolar modo in Italia, Germania e Austria. Fu proprio in occasione della Consegna del Premio Rembrandt presso la Fondazione Goethe di Basilea nel 1977, che Dušan Džamonja dichiarò che questo prestigioso riconoscimento internazionale al suo lavoro, in particolare per i memoriali, era il risultato di specifiche circostanze favorevoli che potevano esistere soltanto in Jugoslavia.
Micha Ullman con la “Biblioteca” in Bebelplatz a Berlino nel 1995, Jochen Gerz e Esther Shalev-Gerz con la “Colonna che Svanisce” o “Il Monumento Invisibile”, dal titolo “Monumento contro il Fascismo” (1986-1993), volevano spingere l’esperienza tra oggetto artistico e soggetto fruitore ancora più avanti. Il visitatore è portato così non tanto a completare l’opera, ponendosi interrogativi sulla memoria, ma attraverso l’assenza dell’oggetto artistico, sull’assenza stessa della memoria.
L’esperienza dei memoriali di Dušan Džamonja, l’“Ossario Partigiano” a Barletta, completato nel 1968, e il “Monumento alla Rivoluzione” al Monte Kozara, completato nel 1972, segna un passaggio ulteriore nella creatività dei memorialisti nel progettare spazi emozionali ancora più interattivi e coinvolgenti.
Entrambi i memoriali, si sviluppano circolarmente, spingendo i blocchi di cemento delle due opere verso il corpo centrale. A partire dai margini, a Barletta, i blocchi esterni aumentano in altezza gradualmente fino a divenire obelischi, aprendo l’ossario partigiano verso il cielo. Mentre al Monte Kozara, i blocchi della stessa altezza stringono d’assedio la torre al centro. Nel primo caso, i blocchi rappresentano il sacrificio dei partigiani e lo slancio rivoluzionario che ne è scaturito, dall’altra l’asse nazi-fascista che stringe d’assedio il gigante partigiano. L’attraversamento dei blocchi di cemento è un esperienza che diviene davvero vivibile. Non si tratta più di modificare il paesaggio ma di crearlo attraverso l’esclusione delle visuali, oltre le opere, mentre si è al loro interno.
Un simile effetto è stato riproposto e potenziato nel “Memoriale alle Vittime della Shoah” di Peter Eisenman, inaugurato nel 2005, moltiplicando l’effetto labirintico di spaesamento tra masse scultoree squadrate.
Terza rottura partigiana: autogestione e avanguardia artistica
Le linee guida della nuova società introdotte in campo economico auspicavano l’estendersi della pratica autogestionaria a tutti i rapporti sociali e umani. Rappresentare ed entrare direttamente nella pratica autogestionaria significò per il mondo dell’arte accedere alla progettazione di prodotti in una situazione politica in continua sperimentazione, influenzata dalle culture locali come dai rapporti con l’estero. La critica costante dell’esistente attraverso le rotture partigiane investiva le grandi opere pubbliche così come la progettazione di ogni prodotto utilizzato nella vita quotidiana.

Gli anni Cinquanta segnano una forte urbanizzazione con lo spostamento di popolazione dalle campagne alle città, richiedendo piani e progetti urbanistici con nuove unità residenziali e nuove abitazioni.

Non mancarono dibattiti sulla questione urbana, su quali fossero le migliori soluzioni architetturali e progettuali e sull’assegnazione delle nuove abitazioni. Una progettazione partecipata, in cui architetti, urbanisti e designer si confrontavano direttamente con gli abitanti. Di nuovo, come negli anni venti, quando Margarete Schutte-Lihotzky, architetto viennese marxista, inventò la cucina modulare per le case degli operai, l’appartamento divenne un luogo centrale di progettazione d’avanguardia. Il dibattito sulla cultura della casa tornò centrale, permettendo a tutti l’accesso ai benefici della modernizzazione. Si moltiplicarono le riviste sui temi della vita quotidiana, nonché esposizioni di design con largo successo di pubblico. Gli jugoslavi si recavano nelle capitali federali per conoscere, scegliere e acquistare le nuove proposte del design. Tra gli eventi più importanti si ricorda l’Esposizione di Lubiana “Abitazioni per le Nostre Condizioni” nel 1956.
La circolazione degli oggetti socialisti in opposizione alle merci occidentali, qui sembra, in questo momento storico, pienamente realizzata. L’assenza di obsolescenza programmata era uno degli obbiettivi di distinzione della produzione autogestionaria dell’oggetto socialista. La questione della liberazione e di come raggiungerla unì l’idea di arte applicata di origine costruttivista e la pratica dell’autogestione nella fabbrica
I raccordi stretti ma liberi tra politica, cultura e arte riuscivano a offrire risposte concrete alle crisi che strutturalmente si presentavano, spingendo verso soluzioni per risolvere i conflitti inevitabili tra democrazia diretta e partiti, stato federale e repubbliche, mercato senza capitalismo e pianificazione economica, sviluppo ed etica socialista, individualismo e lavoro collettivo.
L’autogestione implicò una maggiore quota di individualità che restituì ad artisti e movimenti la loro indipendenza non solo stilistica ed estetica, ma soprattutto di ricerca e innovazione.

In questa situazione, la sfida fu raccolta da diversi gruppi d’avanguardia, tra i primi: EXAT51.

Sin dal manifesto del 1951, EXAT lancia la provocazione sulla definizione di arte ed estetica socialiste in contrapposizione con le correnti interne ed esterne che la volevano una volta per sempre codificare. Nel secondo manifesto per l’Esposizione di Zagabria del 1953 si legge: “A chi sostiene che questo stile di arte visuale non è socialista, chiediamo: ‘voi già possedete la formula della pittura socialista?’”. Gli artisti di EXAT propongono uno sperimentalismo continuo come rappresentazione di una rivoluzione aperta contrapposta a correnti tradizionali come il social-realismo, in quanto rappresentazione di una rivoluzione considerata conclusa, partecipando quindi alla terza rottura partigiana.
Aleksandar Snrec, Ivan Picelj, Vjenceslav Richter disegnarono e realizzarono, fin dal 1950, oggetti d’arredamento per i nuovi appartamenti. Da EXAT provengono le copertine di riviste e rotocalchi di architettura, design, moda e arredamento come Svijet, e Arhitektura. Vjenceslav. Ritcher vide i quadri di Kazimir Malevič nel 1950, viaggiando tra New York e Chicago, e proprio Malevič è alla base della sua idea di ripetizione e di quella di idea di campitura di un altro artista di punta di EXAT: Ivan Picelj.
EXAT51 dichiarava che l’arte dovesse essere continua ricerca creativa e sintesi da applicare utilmente nello sviluppo della nuova società. Da EXAT nacquero in quegli anni lo Studio per il Design Industriale e il Centro per il Design Industriale, istituti indipendenti che associavano in modo ancor più stringente la cultura della produzione alla cultura del consumo. Il tentativo di EXAT di riallacciarsi alle avanguardie visuali e rielaborarle in qualcosa di inedito in tempi diversi, era un prodotto del clima culturale e politico del secondo dopoguerra. Lo storico dell’arte Jerko Ješa Denegri sostiene che questo clima europeo: “provò a ristabilire, su scala ideologica ed etica, il concetto di razionalismo come pacifica costruzione opposto all’irrazionalismo della distruzione in quanto immediata conseguenza della guerra appena finita”.
EXAT51 partecipò all’EXPO di Bruxelles del 1958 con un padiglione realizzato da Vjenceslav Richter. Il progetto è del 1956 e insiste sulla sospensione, ispirandosi dichiaratamente al Costruttivismo, in particolare al progetto di Ivan Leonidov per l’Istituto Lenin di Mosca del 1927. Tuttavia, sono già presenti modularità e mobilità poi sviluppate anche in scultura con la ripetizione di segmenti mobili uguali. Anche il plastico per il padiglione all’Esposizione del Lavoro di Torino del 1961 è strutturato sulla ripetizione di segmenti di geometrie circolari con copertura a zig-zag, in cui gli ambienti comunicanti, senza pareti, saranno ulteriormente sviluppati per rappresentare l’autogestione nello Ziggurat in Sinturbanizam del 1962 e nel padiglione del 1963 alla XIII Triennale di Milano.
Ora, si guardi attentamente al progetto del 1956 e lo si compari con i primi plastici dello stesso anno di “New Babylon” di Constant Nieuwenhuys. Il parallelismo tra l’utopia nomade autogestionaria di Nieuwenhuys per una città della deriva e il progetto di Richter per una città dell’autogestione è sorprendente. Si tenga anche conto che la ricerca sulla mobilità, modularità e movimento continui di Richter è precedente a quella di nomadismo di Nieuwenhuys, in quanto risalante almeno al 1950. Mentre la prima vera e propria rappresentazione di New Babylon risale a un quadro del 1953. L’unico di cui abbiamo conoscenza che abbia rilevato e argomentato questa straordinaria somiglianza teorica e stilistica è il critico e artista Armin Medosch. Noi, approfondendo, abbiamo trovato qualcosa di più di una meravigliosa somiglianza formale, New Babylon, tra il 1953 e il 1974, sembra un vero e proprio deturnamento di diversi progetti e studi di altri artisti, scultori e architetti: uno su tutti proprio Richter. Anche nei dettagli dei disegni e del plastico di Nieuwenhuys, abbiamo rilevato che i moduli interni tra la piattaforma sospesa e la piattaforma a copertura di “New Babylon” sono coevi al progetto del ’58 dell’architetto jugoslavo: tutti i moduli ripetuti all’interno di sono davvero molto simili al modulo di Richter.  I progetti sembrano andare di passo, con l’unica differenza che Richter esponeva già pubblicamente in grandi esposizioni ed era osservabile, mentre il progetto “nomade” di Nieuwenhuys era pressoché ancora segreto e sconosciuto.
Altri elementi simili si possono rilevare nella piattaforma sospesa di base di Nieuwenhuys, pensata come una sorta di sistema di palafitte. Essi richiamano il plastico labirintico aperto di Richter del ’63. Un quarto elemento si scorge guardando allo “Ziggurat” di Richter che richiama l’Antica Babilonia in chiave autogestionaria. L’idea stessa di una Nuova Babilonia di Richter va di pari passo con quella di Nieuwenhuys: New Babylon sembra essere Richter soltanto un po’ più frastagliato. Certamente, la breve esperienza dell’autogestione del movimento algerino poteva sembrare meno contraddittoria e più appetibile di quella realizzata in Jugoslavia e, probabilmente, Nieuwenhuys ha fatto sua l’idea autogestionaria franco-centrica di Guy Debord. Finì così per attribuire tutta l’ispirazione all’architettura nomadica algerina, mentre le reali origini stilistiche, anche di Debord, stanno tutte nel Costruttivismo, da cui Richter si ispirava dichiaratamente e apertamente.
La traiettoria artistica di Exat51 in quanto Terzo Spazio dell’Arte, il tentativo riuscito di essere il primo gruppo al mondo a riconoscersi come erede del Costruttivismo nel campo di tutte le arti visuali, è stata eccezionale nei risultati e nel lascito.
Quarta rottura partigiana:  Nuove Tendenze e la cyber art.
Il lascito del gruppo, al suo scioglimento, porterà alcuni anni dopo all’emersione di una neoavanguardia che tutt’altro che “futile”, avrà proprio in Jugoslavia, con Nuove Tendenze, uno dei suoi luoghi di innesco iniziale. Nel 1953, Zvonimir Radić, uno dei teorici di EXAT51, aveva incontrato, alla Scuola di Ulm, Max Bill, ispiratore del gruppo sin dall’inizio. Radić aveva pubblicato il discorso di Gropius per l’inaugurazione della Scuola di Ulm su Arhitektura, una delle riviste graficamente curate dagli artisti di EXAT.
Dall’incontro tra il pittore costruttivista brasiliano Almir Mavignier e il critico Matko Meštrović nel 1960, si avvia un dibattito sulla necessità di creare più di un movimento, ma un luogo aperto di confronto ed elaborazione collettivi, un vero e proprio spazio artistico alternativo ai circuiti internazionali delle Biennali e Triennali, scaturito subito dopo l’ultima di Venezia del 1960, in cui fu sancita la moda dell’informale. Questa, fu la Biennale dove cominciarono le dure contestazioni ai critici che, in crescendo, scoppiarono definitivamente nel 1968.
In “Ideologia di Nuove Tendenze”, Matko Meštrović, teorico del gruppo, afferma che mentre i critici avevano ridotto l’arte a merce, le Nuove Tendenze avrebbero lavorato nella prospettiva di un lavoro collettivo, concentrato non sulle singole opere ma sulla totalità della ricerca artistica, scientifica e politica.
Almir Mavignier, teorico e pittore costruttivista brasiliano, si era formato alla Hochschule für Gestaltung, la Scuola di Ulm. Qui aveva già incontrato Max Bill a Zurigo nel 1952. Nel 1954, il pittore e teorico danese dell’arte Asger Jorn, pur riconoscendo entusiasticamente la continuità tra il Bauhaus Di Gropius e quello di Bill, dopo molte incomprensioni con l’architetto e artista svizzero, pretenderà di formarne uno a sua volta.
Paradossalmente, Jorn rompendo con Bill, lasciò al Bauhaus di Ulm tutto lo spazio possibile per riunire l’arco delle arti d’avanguardia e metterle nelle condizioni di avere uno luogo di azione concreto. Così, se da una parte vi era il circuito dominato dai critici occidentali, dall’altra c’era l’atteggiamento irrazionalistico di Jorn e del suo Bauhaus. Mentre i primi si condannavano alla stanca ripetizione del passato i secondi innovavano molto girando tuttavia a vuoto. In mezzo a tutte le correnti artistiche dell’epoca, una nuova rottura in Jugoslavia liberava un terzo spazio autonomo dell’arte: Nove Tendencije (Nuove Tendenze).

In corrispondenza con la formalizzazione al Primo Congresso di Belgrado del Movimento dei Non Allineati nel settembre del 1961, Nuove Tendenze inizia a Zagabria le proprie attività espositive, chiamando da tutto il mondo artisti, designer, pittori, architetti, scultori.

Le ripetizioni di Kazimir Malevič e El Lissitzky e dei moduli in movimento meccanizzati costruttivisti, avevano anticipato sul supporto tradizionale l’estetica cyber-socialista di Nuove Tendenze. Così come il Costruttivismo sulla catena di montaggio aveva rielaborato le avanguardie sulla spinta della Rivoluzione Sovietica, così Nuove Tendenze (NT), in piena ristrutturazione scientifica e tecnologica dei modi di produzione, stava rielaborando le avanguardie dell’epoca. NT sono stati il primo movimento artistico e di design a superare consapevolmente nell’arte il modello fordista.
In quell’anno, nel 1961, apre la prima esposizione di NT alla Galleria d’Arte Contemporanea di Zagabria. Ventinove artisti da Argentina, Austria, Brasile, Francia, Germania, Italia Svizzera risposero all’invito. Ivan Picelij e Julije Knifer furono tra i rappresentanti di punta della Jugoslavia, quasi tutto lo spazio era per l’accoglienza degli ospiti. NT fece molta fatica a reperire artisti nel mondo che stessero in quel momento lavorando sull’informazionale nella produzione industriale. Secondo Denegri, i partecipanti italiani furono selezionati segretamente da Piero Manzoni. Tra il 1961 e il 1963 si alleano con NT due gruppi: i francesi GRAV (Groupe de Recherche d’Art Visuel) e gli italiani Gruppo N (Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi e Manfredo Massironi) e Gruppo T (Enzo Mari, Enrico Castellani, Getulio Alviani, Bruno Munari). Gli italiani N e T, provenienti da numerose esposizioni sostenute tecnologicamente e finanziariamente dalla Olivetti NT, nell’Esposizione del 1963, offrì maggior spazio e rilievo agli artisti locali. Richter presentò una scultura sistemica composta di elementi modulari in legno “Centro Asimmetrico”.
Miroslav Šutej presentò “Bombardamento del nervo ottico II”, un’opera di arte cinetica o frattale, che rappresenta un nervo ottico in bianco e nero che si ritira sotto l’improvvisa sollecitazione di un’esplosione. Aleksandar Snrec presentò “Psy XIII”, parte di una sequenza di opere in plexiglass forellato in cui si mostrano effetti ottici di trasparenza, attraverso sovrapposizioni di strati incisi.
Va inoltre menzionato il contatto tra Nuove Tendenze e Quaderni Rossi che prova che gli artisti di Zagabria erano coinvolti anche nel dibattito con gli operaisti italiani sull’”uso socialista delle macchine”. Ora, sappiamo che il gruppo N di Padova era della cerchia di Antonio Negri, tanto che il contatto molto probabilmente tra Nuove Tendenze e Quaderni Rossi passò per il gruppo degli operaisti padovani. Attraverso NT, il GRAV si accreditò come interlocutore privilegiato dei Quaderni Rossi a Parigi.
Nel 1963 vi fu un celebre scontro tra Internazionale Situazionista e GRAV. l’IS attaccherà frontalmente il GRAV accusandolo, non a torto, di aver copiato alla lettera e di aver presentato alla Biennale di Parigi un loro progetto di ambiente labirintico. Il GRAV nonostante tutto, insistendo, nella seconda esposizione di NT ripresentò la stessa opera.
La terza esposizione, nel 1965, di NT, presentò esclusivamente opere di Kinetic Art, molte delle quali l’anno prima erano state esposte al MoMA di New York: “The Responsive Eye”, il primo blockbuster dell’arte – cui un giornalista attribuì il nome molto più appetibile per gli americani di “Op Art”. Dopo che molti gruppi europei dovettero fare autocritica pubblica, gli artisti di Zagabria, con una mossa audace e coraggiosa li invitarono, con l’intenzione di riappropriarsi della pratica artistica e della rete della neoavanguardia e respingerne l’ideologia capitalista. Furono presentate diverse opere di artisti cinetici, che sebbene già esistenti sin dagli anni venti, si erano formalizzati in Movimento soltanto nel 1955 a Parigi.
L’esposizione NT, di fatto una biennale alternativa, divenendo una vastissima rete di richiamo per artisti di tutto il mondo, cominciò, tuttavia, per questo motivo a perdere la radicalità iniziale, fino a un primo collasso per esautorazione. NT cercò di affrontare con decisione questa situazione di sbando in cui erano finiti anche alcuni degli artisti ospiti partecipanti alle loro esibizioni. Richter si prese la responsabilità di guidare il contrattacco, come direttore della Terza Esposizione di NT nel 1965, invitò a partecipare grandissimi artisti, vecchi e nuovi, attorno alla volontà di riappropriazione della neoavanguardia espropriata da istituzioni come il MoMA. Le novità più interessanti provenivano dall’Italia, tra tutti il Gruppo 63, Operativo R e il Gruppo di Ricerca Cibernetica.
La Terza Esposizione, nonostante molte innovazioni e il grande successo di pubblico, fu un fallimento per gli intenti rivoluzionari degli organizzatori. La ricerca continua e lo sperimentalismo autogestionari restavano un concetto fortemente incompreso da molti degli artisti invitati. La vicenda fece molto riflettere il nucleo originario di NT. Vi fu un Simposio nel castello medievale di Brezovica, vicino Zagabria, nel quale si discusse dello stato dell’arte internazionale e si concluse che gli artisti degli altri gruppi dipendevano troppo dal mercato dell’arte e dalla produzione di merci.
In questo simposio intervenne anche il cibernetico Abraham Moles. I Situazionisti avendolo attaccato in una lettera, prima, e con lanci di pomodori, poi, avevano perso l’occasione di comprendere alcuni aspetti fondamentali del post-fordismo, troppo concentrati sul momento della circolazione delle merci. Al contrario, gli artisti di NT lo ascoltarono. Moles ebbe, infine, la sua rivincita e NT tornò due anni dopo, rilanciando con una chiamata internazionale proprio attorno al rapporto tra computer art e ricerca visuale che portò all’Esposizione del 1967.
L’incontro del 1967 fu davvero cyber-socialista, invitando tre gruppi molto speciali che vedevano la presenza anche di hacker al suo interno: Anonima dagli USA, Dvizhenie dall’USSR e il MID (Mutamento Immagine Dimensione) dall’Italia. Nel 1968 vi fu un ulteriore evento, più esteso, che sancì definitivamente la nuova direzione. Vladimir Bonačić, studente di informatica al Ruđer Bošković Institute, in collaborazione con Picelj presentò la sua prima opera cibernetica e socialista vera e propria, realizzata nel ‘67: “T4”. Dal nome e dal numero della rivista di Nuove Tendenze 4, cui il gruppo dedicò la copertina.
“T4” era un’opera avveniristica, generata da un’idea grafica di Picelj, che voleva aggiungere effetti elettronici di luce alle precedenti sperimentazioni lumino-cinetiche sulle superfici degli artisti di NT. Finalmente si inveravano anni di studi sul rapporto tra arte visuale e informatica. “T4” consisteva di una griglia di tubi paralleli tagliati in sezione angolare su un pannello, sui quali erano montati centinaia di micro-bulbi di luce. Quattro interruttori sul lato destro permettevano al pubblico di interagire con l’opera combinando le luci del pannello. Bonačić fin dall’inizio realizzò griglie e matrici elettroniche di luci o suoni, la cui articolazione è sempre diversa, non perché generata dal computer, ma perché continuamente improvvisata dall’artista e interagita dal pubblico, anticipando sia l’idea contemporanea di VJ set, sia intravedendo la possibilità di creare, con l’interazione e cooperazione uomo-macchina, il nuovo linguaggio che si sarebbe sviluppato nell’informatica come web.
In quell’anno scoppiò il ’68, nelle università studenti e professori entrarono in agitazione occupando le facoltà. Tito incontrò gli studenti. che stavano scorgendo alcune delle contraddizioni storiche, economiche, politiche e nazionali che già presenti, finirono poi per esplodere nelle guerre degli anni Novanta.

Gli studenti jugoslavi entrarono nel merito dell’economia e della politica, criticando aspramente le aperture al mercato occidentale. Non fecero sconti a nessuno. Durante l’occupazione dell’Università di Belgrado, infatti, una rappresentazione teatrale studentesca portò criticamente sul palco le tre figure significative dell’autogestione jugoslava: il partigiano, il filosofo umanista à la Praxis e il tecnocrate.

La prima esposizione del nuovo ciclo d NT fu la formalizzazione a livello internazionale nel 1969 della ricerca sulla computer e cyber art. Zagabria è stata la prima città ad ospitare l’opera capolavoro “Five screens with computer” di Gustav Metzger, inventore dell’arte autodistruttiva. Otto Beckmann and Ars Intermedia presentarono uno speciale generatore di rumore con modulazione di bassa frequenza, proveniente dall’Istituto di Tecniche di Bassa Frequenza della Scuola Tecnica di Vienna, capace di produrre suoni aleatori a un livello atomico. Bonačić sviluppò un suo discorso originale sulla cyber art negli spazi pubblici socialisti, presentando “DIN PR 18”, un’opera elettronica su alta scala in cui le luci vengono combinate direttamente sulla facciata del Nama, un grande magazzino sulla Piazza Kvaternik di Zagabria. L’installazione luminosa in metallo, componenti elettronici e vetro, consisteva di 18 elementi rettangolari di tre metri per cinque, su una superficie totale di 36 metri, capace di modulare fino a 262.143 combinazioni. Due anni fu potenziata con il nome di DIN PR 16 e montata su edifici di numerosi spazi pubblici jugoslavi.
Se si guarda a DIN PR 18 e alla sua versione più estesa e articolata DIN PR 16, si può trovare un’analogia con il pannello utilizzato dagli umani per comunicare con gli alieni nella celebre scena del film “Incontri ravvicinati del terzo tipo” del 1977. Spielberg nel film mostra un’idea della comunicazione tra umani e alieni attraverso il computer che più che sottendere all’aleatorietà dell’arte cibernetica occidentale ricorda il recupero dell’umano nella cyber art di Bonačić

New Tendencies 5 poster by Ivan Picelj 1973

Nel 1973, con Nuove Tendenze 5, il passaggio al post-fordismo divenne una questione evidente ineludibile per tutti. Paradossalmente tuttavia, a dominare la scena artistica internazionale, non fu la via aperta dagli artisti di Zagabria che avevano anticipato le tematiche dell’epoca, nonché utilizzato già da diversi anni le macchine per l’arte. Fu dominante invece, il prodotto di un tipico rovesciamento in assenza di rottura, realizzato a tavolino dalla critica, a decidere le sorti dell’estetica di questo nuovo paradigma produttivo: l’arte concettuale.
Questo farà sembrare il lavoro di NT come superato, ma, in realtà, si trattò di una manovra e una rivincita dei critici per metterli all’angolo della storia con tutto il socialismo reale, in un momento in cui mancava anche una teoria forte anti-artistica all’altezza dei tempi come quella situazionista. In questo contesto NT5 si presenta come momento di scontro tra diverse correnti dell’arte. La fine della parabola vincente che aveva contraddistinto Nuove Tendenze
Conclusioni
NT5 ospitò anche gli artisti concettuali più celebri del momento. Tuttavia, in Jugoslavia, la generazione che si era formata con il ’68 chiusa in un network di ghetti di libertà assoluta in cui si erano formati intellettualmente, ora chiedevano di più: trasgressione, sovversione, sessualità nichilista. Accusavano NT di “dogmatismo retinale cinetico” e di essere un progetto di derivazione costruttivista, quindi comunista, rivendicando libertà anarcoidi e punk tipiche dei ‘70. La scena artistica, sempre più occidentalizzata ed estetizzata politicamente, si sposta soprattutto nella ricca Slovenia. L’individualismo delle nuove leve artistiche, ora totalizzante e non più contributo individuale all’arte collettiva, dilaga a NT5: l’esempio più plateale si ritrova nelle opere dell’artista bosniaco Slobodan “Braco” Dimitrijević, in cui egli rappresenta sé stesso o concetti che richiamano sempre e soltanto l’individuo opposto alla collettività.
In Slovenia i gruppi OHO e KOD con il loro anarchismo nichilista sottoculturale, hippie e freak, finiscono, nemmeno tanto inconsapevolmente, per produrre opere che, richiamandosi a valori nazionalistici e particolaristici, in nome della libertà assoluta, soffiano sul fuoco delle rivalità etniche storiche, quelle stesse che esploderanno in maniera drammatica e sanguinaria dal 1991. Questo stesso gruppo, dopo una performance che richiamava il simbolo sloveno, il “Monte Triglav”, sull’attuale bandiera della Slovenia, al tempo censurato come provocazione nazionalista, finì per cedere da subito alle lusinghe del MoMA e nel 2007 si accodò molto tardivamente alla moda dei nomi multipli come Luther Blissett, nominandosi tutti come Janez Janša, nome multiplo preso, in questo caso, a prestito dal ministro dell’allora Ministro della Difesa sloveno, oppositore del Partito Democratico alla Jugoslavia socialista, durante la Guerra d’Indipendenza Slovena nel 1991, oggi Primo Ministro politicamente e finanziariamente legato a Viktor Orban.
Nuove Tendenze, in questa situazione, ripara nella cyber-art e inizia a stampare fin dal 1968 la rivista “Bit International”. La Jugoslavia riesce sempre meno a tenere unite le sue Repubbliche e anche le sue correnti artistiche si frammentano al suo interno sotto il peso dell’individualismo degli artisti e della retorica nazionalista. I proceedings di T5 saranno una riflessione sul razionalismo e l’irrazionalismo nella ricerca visuale, dove per “razionalismo” s’intende la ricerca di Nuove Tendenze fino al 1973, arte costruttivista e cyber-art, e per “irrazionalismo” l’arte concettuale. Inoltre, la situazione non era poi così lineare. Seguendo le teorie di Alfred Sohn-Rethel, NT stessa cominciò per la prima volta una vera e propria auto-critica, aprendo la strada a contestazioni che arrivarono a sancire che la stessa “Arte Razionalista” era ora “sconfitta”, in quanto divisa tra “la testa” -il lavoro intellettuale- e “la mano” -il lavoro manuale- , come scritto da Frieder Nake, ospite nella Rivista di NT5.

NT6 fu molto ambiziosa, ma in fondo solo una grande retrospettiva di tutte le nuove pratiche artistiche, dalla fondazione del gruppo fino a quel momento. Era il 1978. Si può dire che l’arte concettuale in Jugoslavia è la premonizione di qualcosa che sta accadendo di più profondo nella struttura economica della Jugoslavia: il cedimento del progetto unitario verso una destinazione incerta che non ha proposte alternative. Gli ultimi artisti rimasti non trovano più alleati in quanto tutti contagiati dal protagonismo artistico individuale e dalla febbre particolaristica e postmodernista.

Quella dell’arte jugoslava è un’esperienza paradigmatica che vale anche per ciò che è accaduto all’interezza della Federazione. Essa non è implosa come il blocco est, ma è stata tirata e spinta da tutte la parti. Questo è stato possibile anche perché al suo interno, soprattutto la generazione del ’68, produsse negli anni ’70 individui nichilisti permeabili alle retoriche nichiliste e nazionaliste. Dal ‘73 in poi, non vi è stata più alcuna sequenza di rotture partigiane e rivoluzionarie tali da rilanciare l’unicità del progetto unitario federativo, né in termini politici né in termini culturali. Vi sono state piuttosto “contro-rotture” reazionarie a tutti i livelli.
Ci sembra di poter dire che oggi l’ambiente della net, hacker e media art, spesso anche vicino a centri sociali occupati e autogestiti e squat, raccoglie l’eredità di NT senza operare rotture rigeneranti e davvero rivoluzionarie. Se non si producono e non si rinnova quello spirito partigiano che animava gli artisti di Zagabria, è perché si tenta di reiterarne solo l’aspetto estetico e politico formale, come ben si è visto in appuntamenti internazionali come Transmediale. Sebbene spesso praticata da attivisti, è proprio l’assenza della pratica della rottura partigiana e rivoluzionaria a favore di una circolarità disruptiva tra mercato e attivismo a non far avanzare la sperimentazione in avanti.
Ad esempio, non si pone la questione che all’epoca NT indagava su quale possa essere esattamente il modo di produzione attuale in una società autogestionaria socialista, visto che non possiamo dirci ancora, dopo tanto tempo, ancora post-fordisti.
Il lascito di NT è stata innovato esclusivamente attraverso la giustapposizione postmoderna con mille altre correnti artistiche contemporanee, spesso davvero inconciliabili, dall’Internazionale Situazionista al Neoismo, dal Luther Blissett Project al Plagiarismo inglese, da Fluxus all’arte concettuale, dal Cyperpunk al Cyberfeminnismo.
Se Kirn ha utilizzato utilmente Althusser per la Jugoslavia, Althusser non è in grado tuttavia di spiegarci il successivo dilaniarsi di quei territori. Cosa è successo perché la sequenza di rotture partigiane rivoluzionarie si interrompesse? Evidentemente, c’è da fare ancora un piccolo passo teoretico: noi riteniamo vi sia un parallelismo tra ciò che è accaduto allo strutturalismo di Althusser e ciò che è teoreticamente venuto dopo: il post-strutturalismo. Questo è un insieme di teorie che affermano la positività rivoluzionaria della dispersione e il passaggio dal molare al molecolare, dal macro al micro, così come è esattamente accaduto in Jugoslavia quando vi è stato il riaccendersi dei nazionalismi e la perdita dell’unità federativa. Di rimbalzo, il nostro articolo disvela come tale positività rivoluzionaria della dispersione si era rovesciata già nei primi anni ’90 in reazionaria e sanguinaria Dunque, Althusser, forse, ci indica come forze eterogenee convergano in una unità di rottura, ma non ci indica come questa possa poi arrivare a una rottura senza unità.
Ciò che accaduto non è stato un ritorno alle differenze, ma una perdita di differenze. Ciò che è accaduto è stato un ritorno alle identità e alla vittoria dello Stato: vi è una continuità storica che porta dalle privatizzazioni che hanno smantellato il sistema dell’autogestione alle guerre identitarie. È venuto a mancare il principio stesso dell’auto-fondazione: la rottura partigiana è stata soppiantata da una contro-rottura nazionalistica e reazionaria che ricalca sorprendentemente il modello teoretico post-strutturalista. Modello teoretico degli anni ’70 del tutto impreparato negli anni ‘90 alle dinamiche glocali di allora. Noi riteniamo che qualora il sistema dell’autogestione si fosse rinnovato e avesse tenuto, le cose sarebbero andate probabilmente diversamente. Non affermiamo con atteggiamento da “Jugo-Nostalgija” che sarebbe sopravvissuta la Jugoslavia, ma di certo non vi sarebbero stati quei crimini contro l’umanità e i tentativi di “urbicidio” come a Mostar e Sarajevo.
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Chiara Sestili

Chiara Sestili

Chiara Sestili è storica dell’arte e conservatrice di beni culturali, ricercatrice di cultura materiale medievale e paleografia latina, porta attualmente avanti ricerche sulle avanguardie artistiche del Novecento, in particolare della ex Jugoslavia. È fotografa e artista, da anni mette in campo le sue competenze fotografiche e di storica dell’arte documentando sul territorio ex Jugoslavo le relazioni tra la storia politica, la cultura materiale e i movimenti artistici del periodo socialista: memoriali, sculture, architetture, grafica, design, riviste, giornali, letteratura, musica. Il suo lavoro fotografico e critico sull’ex Jugoslavia è stato presentato ed esposto in numerose gallerie. Chiara Sestili e la su macchina fotografica vanno in deriva per il mondo, in particolare tra Roma e Belgrado.
Daniele Vazquez

Daniele Vazquez

Daniele Vazquez è antropologo, psicogeografo, urbanista e scrittore di science fiction. Tra i fondatori del Luther Blissett Project, ha fatto parte e fa parte di numerosi gruppi anti-artistici, attivisti e di ricerca indipendenti sulle forme di vita urbane, tra i quali l’Associazione Psicogeografica Romana. Ha pubblicato contributi per diversi libri, articoli per numerose riviste e nel 2010 il volume Manuale di Psicogeografia, nel 2012 il romanzo La comunità dei sogni, nel 2015 La fine della città postmoderna, nel 2016 ha fatto parte dell’équipe di ricercatori che ha lavorato al volume Sviluppo e benessere sostenibili. Una lettura per l’Italia, nel 2018, con Cobol Pongide, il libro patafisico Ufociclismo. Atlante tattico ad uso del ciclista sensibile e, con Laura Martini, la raccolta di scritti del Centro di Ricerca dei Luoghi Singolari: Che cosa è un luogo singolare?

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SCIOPERO GENERALE mercoledì 25 novembre 2020

 

Il mutuo appoggio un fattore di evoluzione

A cura di Giacomo Borella Prefazione di Lee A. Dugatkin Prima traduzione dall'originale inglese Darwiniano convinto, e lui stesso scienziato a tutto tondo, Kropotkin pubblica nel 1902 un'opera innovativa e dirompente che a partire dalle sue ricerche sul campo, soprattutto in Siberia, dà un'originale interpretazione della teoria dell'evoluzione, coniugando in modo inedito la teoria di Darwin con alcuni aspetti del pensiero di Lamarck. Scritto principalmente per confutare le idee del darwinismo sociale – sostenute all'epoca soprattutto da Huxley – questa  opus magnum  kropotkiniana dimostra, grazie a una sterminata documentazione e a geniali intuizioni, come la vita non si riduca affatto a una spietata competizione in cui vince il più forte, idea che peraltro stravolge lo stesso pensiero di Darwin. Al contrario, è la cooperazione, l'aiuto reciproco – il mutuo appoggio, appunto – a essere la forza trainante che consente al processo evolutivo di sviluppars