Pubblichiamo la prima parte del «Manifest@» del Collettivo Femministe Nove,che abbiamo avuto il piacere di presentare con le compagne al Laboratorio Sociale Quarticciolo il 19 giugno scorso (vedi qui). Per approfondimenti sul «Manifest@» qui e su DWF n. 98, 2013 (qui)
MANIFEST@:
#autodeterminazione
Scriviamo per responsabilità verso le nostre vite e desiderio di cambiarle.
Scriviamo per ritrovare il senso e il tempo di una autodeterminazione individuale e collettiva.
Siamo donne sull’orlo di una crisi di nervi e la crisi è la
narrazione dominante del tempo che viviamo: un nesso ci sarà pure.
Vogliamo nominarlo.
Viviamo il tempo della crisi e della sconfitta. Un tempo di crisi economica e politica. Vogliamo immaginare e costruire un altro tempo.
Pensiamo sia necessario costruire una connessione politica tra
teorie della trasformazione e pratiche di liberazione, tra pensiero ed
esperienza.
Siamo femministe nove. Non siamo ereditiere, siamo precarie.
Non confondiamo lo sforzo immenso che implica ancora la liberazione
individuale e collettiva con la libertà. Non riusciremmo oggi a pensare
la libertà senza il femminismo. Allo stesso tempo non possiamo pensare la libertà femminista se non come una libertà in situazione e in relazione, radicata nella materialità dei corpi e delle condizioni:
come nesso tra libertà e liberazione. Il femminismo non è un’identità:
possiamo divenire femministe solo nelle metamorfosi che produciamo, in
noi, nelle relazioni, nel mondo. La radicalità non può essere solo il
connotato di una enunciazione senza pratiche.
Proprio perché pensiamo il femminismo come la nostra rivoluzione
possibile, non possiamo consegnarlo al già detto e al già narrato. Il femminismo è un divenire, non un dover essere. L’autodeterminazione è una continua lotta.
Rifiutiamo un femminismo senza corpo.
La nostra autodeterminazione non ha un contenuto.
Riconosciamo il valore fondativo delle nostre genealogie nel pensiero e nelle pratiche femministe.
E non vogliamo vivere il confronto fra generazioni femministe né
nell’asimmetria di potere e di autorità né nell’invidia dell’epica di
una stagione aurorale. Vogliamo partire dalle nostre vite, dal presente
che ci accomuna, per costruire pratiche di potenziamento reciproco nel
desiderio condiviso di cambiamento, di liberazione dall’oppressione
materiale e simbolica. Autodeterminazione e libertà non coincidono
ancora.
Siamo femministe storiche: il tempo presente ci fa orrore. Vogliamo agire per cambiarlo.
Ognuna è responsabile della propria indifferenza.
Siamo partite da noi. Ci siamo narrate. È stata ed è già
politica. Il femminismo è stata la rivoluzione più autentica, è oggi
quella più necessaria: quella che ci permette di nominarci come
soggetti, di nominare lo scarto tra i nostri desideri e la realtà. Ma il
vuoto di una libertà immaginata è stato occupato dal pieno di un
capitalismo totalitario, che fagocita capacità di cura e relazione.
L’ansia di libertà è diventata ansia da prestazione.
Siamo nate dopo. Dopo la nominazione di sé come soggetti, dopo
la decostruzione dell’universale donna. Dopo l’emancipazione,
l’autocoscienza, la liberazione, la differenza. Siamo già state donne e
lesbiche, nelle frontiere e ai margini, cyborg e queer,
irrappresentabili e rappresentate. Ma non ci sentiamo affatto post. Sentiamo il femminismo come una metamorfosi che ci attraversa, un cambiamento che pensiamo e agiamo attraverso il corpo.
Non siamo staffette, siamo partigiane.
Siamo singolarità in relazione: vogliamo costruire alleanze, potenziare i diversi percorsi di liberazione.
Pensiamo l’autodeterminazione come parola satura da svuotare e come parola vuota da riempire.
Ridecliniamo l’autodeterminazione oggi in un contesto di
decostruzione di naturale e artificiale e, allo stesso tempo, di
colonizzazione sempre più pervasiva del biopotere sui nostri corpi.
Ci avevano avvertite che l’emancipazione poteva assumere il volto di un destino.
E abbiamo resistito affinché le nostre vite e i nostri corpi non
fossero portati al mercato di un lavoro femminilizzato, che ancora una
volta ci “assegna un posto” anche quando un posto non ce lo dà, che
spesso ci sussume senza assumerci.
Abbiamo riconosciuto e nominato questa trappola. Ma ancora non basta,
se questo è il mondo che viviamo. Non basta se inseguiamo la promessa
del lavoro, perché identità e senso possiamo trovarli solo al prezzo di
competizione e (auto)sfruttamento; non basta se il lavoro lo togliamo
dal centro, perché anche il tentativo di investire su tutto il resto è
condizionato dalla precarietà. E anche mentre ci diciamo che il nesso
lavoro/identità è sciolto, un pezzo del senso di noi e del nostro tempo è
sempre impigliato lì.
In tutti questi casi, tra lavoro a tempo determinato e a tempo indeterminato, è scomparso il lavoro come tempo autodeterminato.
Tra il rifiuto del lavoro (così com’è) e la volontà di trasformarlo c’è un legame profondo.
La precarietà è una condizione diffusa, non è una coscienza collettiva di una condizione.
È uno stato d’animo diffuso come percezione solitaria della propria
miseria individuale. È raccontata come emergenza o come escrescenza
sociale da riassorbire nelle retoriche di quelle stesse politiche che la
producono e la prevedono strutturalmente.
La precarietà non è un’identità: è la situazione in cui
viviamo e, dunque, quella in cui possiamo costruire conflitti e pratiche
di libertà. Una situazione che non vogliamo rimuovere, perché vogliamo
cambiarla.
Stentiamo a rendere collettiva la consapevolezza della possibilità di una trasformazione per tutte e tutti. Le soggettivazioni politiche precarie sono quanto mai difficili, nella frammentazione e nella competizione in cui siamo immerse.
È difficile divenire collettivamente soggetti di conflitto quando il corpo politico è consunto;
quando i corpi sono indotti ad una disponibilità permanente al lavoro,
disimparano a dire no. Colpito dalla crisi, cancellato dalla
bidimensionalità della politica televisiva, il corpo è rimosso anche
quando è esposto per protesta, su una gru o in un gesto estremo. La
realtà del corpo non fa più attrito nel discorso separato della
politica, che è sempre più linguaggio senza corpo.
È senza corpo la politica istituzionale, con i suoi richiami
astratti alle riforme strutturali per l’uscita dalla crisi e con il
sottofondo di un senso di colpa indotto dalla retorica del debito e
tradotto nei termini di competitività, meritocrazia, flessibilità. Per
uscire dalla crisi, per essere credibili sui mercati, dovremmo accettare
che i nostri corpi siano annientati. Perché queste misure si traducono
in abbassamento dei salari, disoccupazione, tagli al welfare, attacchi
al sistema della contrattazione collettiva, precarietà.
Sono i nostri corpi a dover uscire dalla crisi.
Ci sentiamo parte di quella generazione politica che non vuole pagare il prezzo della crisi, ma
sembra non avere potere per evitarlo. Che è nata con l’esperienza dei
social forum e si è ritrovata a Genova 2001 affermando che “un altro
mondo è possibile”, ma respira oggi l’aria di una pesantissima
sconfitta. Pensiamo che le pratiche di costruzione del comune e di
autogoverno contro la recinzione siano strade da percorrere. Ma perché
queste pratiche diventino motore di trasformazione non possono
contemplare nessun autocompiacimento comunitario, né la miseria di
relazione fra corpi asessuati.
Sentiamo un deficit di pratiche e la responsabilità di porci
collettivamente, da femministe, un problema di efficacia nel produrre
spostamenti nel senso comune, cambiamenti nella vita materiale di donne e
uomini che vivono in questo tempo di crisi.
Partiamo dalle pratiche allora. Dalla necessità di costruire
luoghi di autogoverno e spazi liberati che vivano nella porosità col
mondo circostante, nella tensione a una liberazione collettiva,
individuale e sociale; pensiamo a degli spazi abitati da donne e uomini;
al reddito come strumento di connessione e di demercificazione: un
reddito di autodeterminazione. Pensiamo a un separatismo che non sia
politica separata, pensiamo a come costruire percorsi di potenziamento
fra identità non fisse e in divenire.