I primi anni del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina
di Valerio Evangelisti (1987)
PARTE 1.
Ufficialmente fondato nel 1967, il
Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina trae in realtà
origine dal Movimento Nazionalista Arabo, creato quindici anni prima
da George Habash - un medico palestinese di famiglia cristiana a quel
tempo noto per il suo spirito umanitario e per le cure prestate
gratuitamente ai meno abbienti. Quando l'MNA prende vita, ogni
traccia di presenza culturale araba sul suolo della Palestina - ormai
denominata Israele - sta lentamente scomparendo. Già da un
quindicennio le avanguardie armate del movimento sìonista, violando
la risoluzione delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 (che
assegnava ai coloni ebraici il 56% del territorio, pur rappresentando
essi meno di un terzo della popolazione) (1) e approfittando del
platonico intervento degli eserciti della Lega Araba (quindicimila
uomini male armati e pochissimo convinti), hanno preso possesso
dell'intero paese (2). Successivamente si sono preoccupati di porre
rimedio all'inferiorità numerica della loro comunità. Oltre a
cacciare o a deportare oltre frontiera migliaia di arabi restii a un
esodo spontaneo, e a disperdere le tribù di beduini (3), si sono
dedicati al sistematico smantellamento dei villaggi indigeni (Umm
Rash-Rash, Ennan, Geuma, Katia, Khassas, Berat, Abu Gosh, ecc.),
svuotati degli abitanti e demoliti letteralmente pietra su pietra
(4).
Di 475 villaggi arabi censiti nel 1948,
ne sopravvivono nel 1956 appena 90, mentre la presenza palestinese è
stata completamente cancellata da otto distretti su quindici (5).
Inoltre lo stato di Israele, data la sua natura intrinsecamente
confessionale, ha proceduto a estirpare le vestigia della cultura
preesistente alla sua fondazione. Non solo sono scomparsi, per forza
di cose, i c1ubs letterari arabi e i circoli nazionalistici fiorenti
negli anni Trenta, ma moschee, chiese cristiane, testimonianze
artistiche e lapidi tombali hanno fornito materiali a buon mercato
per la costruzione di kibbutzim e di nuovi centri urbani.
Non è quindi un caso se i primi
tentativi di resistenza anticoloniale, dopo la sconfitta del 1948,
investono la sfera della cultura e tendono invariabilmente a
ricomporre un'identità nazionale palestinese quotidianamente
minacciata di dissoluzione. In questo senso, il contributo iniziale
del Movimento Nazionalista Arabo consiste nella pubblicazione di una
rivista settimanale, Nashrat Al-Tha'r (1952-1958), presto divenuta
importante palestra di pensiero per i letterati palestinesi in
esilio, nonché per gli intellettuali arabi interessati a un'analisi
non epidermica del trionfo israeliano (6). Certi toni antisemiti, e
l'idealismo che impregna gli sforzi analitici dei collaboratori,
inducono a considerare Nashrat Al-Tha'r un esperimento fallito.
Tuttavia, la dura opposizione a un'assimilazione tra profughi
palestinesi e popolazioni circostanti, quale caldeggiata all'epoca
delle Nazioni Unite (7), e lo spirito di indipendenza dai regimi
arabi dei paesi confinanti, leggibile in numerosi articoli, rendono
la rivista momento non secondario della lotta per mantenere integro
il profilo culturale e nazionale del popolo della Palestina.
Ma Nashrat Al-Tha'r, a differenza della
Lega dei Poeti, della rivista Al-Ard e di altre esperienze coeve (8),
non rappresenta un episodio della resistenza interna a Israele. A un
pieno sviluppo di quest'ultima si oppongono ragioni di natura sia
strutturale che ideologica. Appartiene al primo ordine di motivi la
constatazione che, di oltre un milione di arabi abitanti la Palestina
prima del 1948, ne rimangono entro i confini israeliani, dopo la
guerra, i massacri (celebre tra tutti quello di Deir Yassin) (9) e le
deportazioni, appena 320.000 (10). La sorte di costoro è tra le più
infelici. Fin dai primi mesi successivi al suo insediamento, il
governo israeliano vara infatti una serie di misure legislative tra
loro concatenate, tese a impedire il ritorno dei profughi, a
scoraggiare la permanenza degli arabi che sono restati e ad acquisire
terre e beni già di proprietà palestinese.
Prima di queste misure è un'ordinanza
del 1948 (tradotta in legge nel 1950) che dichiara proprietà dello
stato tutti i beni dei nativi risultanti assenti dal paese alla data
del 1° settembre 1948. Vengono così spogliati di ogni avere non
solo quegli arabi che, in fuga dai teatri di guerra, alla data
indicata erano lontani dal loro villaggio, ma anche molti che
all'epoca si trovavano semplicemente in viaggio dentro o fuori della
Palestina (11). Effetto complementare ha il ripristino dei
regolamenti d'emergenza emanati nel 1945 dall'amministrazione
mandataria britannica, a suo tempo vivacemente contestati dai coloni
ebraici. Viene ad esempio concessa ad autorità civili e militari la
facoltà di dichiarare 'zone di sicurezza' o 'zone chiuse'
determinate aree abitate, allontanandone a tempo indefinito gli arabi
che vi risiedono (molti di essi attendono ancor oggi l'autorizzazione
a far ritorno alle proprie abitazioni, per lo più rase al suolo).
Inoltre viene attribuito alle stesse autorità il potere di requisire
i beni immobili dei cittadini palestinesi, qualora esista la
necessità di sistemare nuovi immigrati israeliti o lo impongano non
meglio precisate 'ragioni di stato'. A ciò si aggiunge il diritto,
accordato dal Ministero dell'Agricoltura, di procedere all'esproprio
dei terreni ritenuti incolti o mal coltivati - inclusi quelli che,
trovandosi entro “zone di sicurezza”, non possono essere accuditi
dai contadini arabi (fellahin) costretti all'esodo.
Completa questa sequela di aberrazioni
giuridiche la “legge della prescrizione”, varata nel 1958, che
concede la registrazione catastale di un terreno solo a chi dimostri
di averlo ininterrottamente coltivato per almeno 50 anni (poi ridotti
a quindici). La trasparente insidia della legge risiede nel fatto
che, all'epoca del mandato britannico, non venivano rilasciati
attestati di proprietà ai fellahin, né la disorganizzazione
dell'Impero Ottomano aveva mai consentito una razionale catalogazione
dei fondi.
Grazie a simili astuzie legislative lo
stato di Israele riesce ad acquisire e a redistribuire ai propri
coloni, nel volgere di pochi anni, 75.000 ettari di suolo urbano,
25.416 edifici e circa 100.000 ettari di seminativo (12) - comprese
le terre waqf, appartenenti alle istituzioni religiose islamiche.
Oltre ai fellahin costretti all'emigrazione, non sono pochi quelli
obbligati a impiegarsi come braccianti avventizi sui poderi che fino
a qualche anno prima erano di loro proprietà. Ma la situazione dei
palestinesi riluttanti a emigrare, precaria sotto il profilo
economico, lo è ancor di più dal punto di vista giuridico. La
'legge del ritorno' (1950) e la 'legge della nazionalità' (1952)
accordano infatti la cittadinanza israeliana a qualunque ebreo si
stabilisca nel paese, mentre ne dichiarano automaticamente privo
qualsiasi arabo se ne allontani, ancorché per pochi giorni (13).
Inoltre concedono la 'naturalizzazione' solo a chi, tra gli arabi
nati in Palestina, può dimostrare di aver risieduto nel paese nei
cinque anni precedenti la presentazione dell'istanza, possiede un
permesso di residenza e si impegna a vivere per sempre entro i
confini di Israele (14).
Il trattamento riservato agli arabi
dallo stato israeliano è dunque di aperta discriminazione, che si
traduce in segregazione razziale vera e propria se si considera il
divieto, fatto agli studenti palestinesi, di accedere a determinate
scuole e di assimilare storia e cultura arabe (spesso denigrate o
addirittura derise nei libri di testo) (15), l'amministrazione
partigiana della giustizia (16), la scarsa o nulla libertà di
movimento e comunicazione tra villaggio e villaggio (17),
l'esclusione dei nativi dai kìbbutzìm (18), il trattamento
differenziato nelle prigioni (19), il rifiuto dell'acqua ai fellahin
(20). Vigendo simili condizioni di inferiorità sociale, che si
associa alla strutturale inferiorità numerica, appare evidente
perché un moto di resistenza incontri difficoltà a svilupparsi in
territorio israeliano se non in forma di opposizione culturale.
Il movimento di liberazione della
Palestina nasce quindi con la peculiare caratteristica di muoversi
prevalentemente all'esterno del paese che intende riconquistare. Ciò
vale per Al-Fatah (sorta nel 1956), i cui primi fedayin (“volontari
del destino”) agiscono sul confine tra Israele e l'Egitto (21). Ma
vale anche per il Movimento Nazionalista Arabo, la cui sezione
palestinese opera prevalentemente oltre frontiera. La dislocazione
esterna obbedisce d'altronde ai limiti di impostazione ideologica cui
si accennava, inizialmente comuni a tutte le forze antisraeliane.
L'MNA professa un panarabismo nel cui ambito la liberazione della
Palestina è momento essenziale, ma non necessariamente prioritario,
di un più generale riscatto dei popoli mediorientali dal dominio
coloniale. Tale visione induce sulle prime il Movimento (anche se in
misura inferiore ad altre organizzazioni, come l'OLP originaria) ad
affidare la riconquista della Palestina più a un intervento esterno
dei regimi arabi progressisti, che all'iniziativa autonoma dei
palestinesi stessi. Progetto che pare concretamente realizzabile dopo
il colpo di Stato iracheno del 14 luglio del 1958, a seguito del
quale un dirigente del MNA e stretto collaboratore di George Habash,
Basil Kubeissi (uno dei futuri leader del FPLP), assume importanti
incarichi nel ministero degli esteri della nuova repubblica.
Simili illusioni si giustificano col
dominio ideologico incontrastato del 'socialismo arabo' di
ispirazione nasserìana (di cui risente anche Al-Fatah), a sua volta
ricollegabile a una precisa matrice di classe. Gli Harakyin (come
vengono chiamati gli aderenti all'MNA, la cui denominazione araba è
Harakat Al-Kaumìyn Al-Arab) sono in prevalenza studenti di
estrazione medio e piccolo-borghese, reclutati nelle principali
università mediorientali (22). Composizione che, come ha dimostrato
Jean Ziegler (23), fino agli anni '60 e oltre si riscontra in tutti i
principali movimenti di liberazione del Terzo Mondo, e che ne
determina l'iniziale ispirazione genericamente umanitaria e
saldamente nazionalistica. Come José Martí e Manuel Céspedes,
assai più che Lenin o Marx, rappresentano le sorgenti ideologiche
cui sulle prime attingono i leader rivoluzionari latinoamericani
(24), così Nasser e Ben Bella, prima che Mao o Ho Chi Mình, sono le
figure carismatiche che dettano l'operato degli Harakyin
mediorientali. Le istanze egualitarie, pur sincere, non hanno ancora
basi materiali per tradursi in scelte non equivoche a favore del
socialismo; né l'estrazione sociale dei leader dell'MNA consente al
Movimento, malgrado la sua diffusione geografica (Siria, Iraq,
Giordania, Libano) e la sua notevole influenza, una ramificazione tra
un sottoproletariato urbano e un proletariato contadino ancora privi
di coscienza antagonistica.
Da notare che simile composizione resta
invariata sia dopo la conversione dell'MNA al marxismo (avviata nel
1962 e statuita dalla sessione del Comitato Centrale del luglio 1967)
che all'atto della fondazione, di poco successiva, del Fronte
Popolare per la Liberazione della Palestina. Ancora nel febbraio del
1969, nel suo rapporto al secondo congresso dell'FPLP, George Habash
è costretto ad ammetterlo con franchezza:
"Il Fronte Popolare, come
organizzazione politica, attualmente non si conforma del tutto alla
struttura di classe proletaria e operaia che costituisce la garanzia
materiale e concreta del carattere rivoluzionario
dell'organizzazione, che ne assicura la fermezza e la capacità di
portare avanti la rivoluzione. L'organizzazione politica del Fronte
costituisce in generale una spontanea estensione dell'organizzazione
del Movimento Nazionale Arabo, per cui la struttura piccolo-borghese
vi prevale. Continuare nella crescita spontanea, senza uno sforzo
pianificato, avrebbe il risultato di confinare la nostra
organizzazione soprattutto entro Amman e le città, con qualche
appendice sussidiaria nelle campagne e nei campi profughi" (25).
Non è dunque la pressione di una base
proletaria a determinare la scelta dell'FPLP a favore del
marxismo-leninismo: è il rigetto dello pseudo-socìalìsrno
nasseriano che induce un gruppo di intellettuali arabi a ricercare
una progressiva compenetrazione con le masse popolari, sulla base di
un disegno di “proletarizzazione” esposto da Habash con grande
chiarezza:
"Non è sufficiente assicurare la
struttura teorica rivoluzionaria del partito; questa struttura deve
aderire alla struttura di classe. Il partito rivoluzionario, nel
contesto palestinese, è il partito delle classi rivoluzionarie,
operai e contadini in primo luogo. (...) Simile struttura di classe
del partito non può determinarsi spontaneamente. Essa richiede una
visione chiara e uno sforzo adeguato. (...) I nostri programmi
organizzativi devono tendere a collocare i nostri più efficienti
quadri dirigenti nei campi profughi e nei villaggi, per cui è
necessario procedere a una analisi globale delle aree rurali e dei
campi profughi, per poi concentrarci in modo massiccio in tali aree.
Inoltre è necessario reclutare i giovani elementi locali che stanno
prendendo coscienza e forgiare in loro solidi fondamenti teorici e
organizzativi, in modo che la maggior parte del nostro corpo
dirigente venga a possedere una rivoluzionaria fedeltà alla classe"
(26).
Ma cosa induce dei giovani nazionalisti
di estrazione piccolo-borghese a convertirsi al marxismo e a cercare
di affidare al proletariato la direzione del movimento? Una prima
risposta, specifica dell'ambiente politico palestinese, è quasi
scontata. Sull'MNA-FPLP, come sugli altri movimenti di resistenza,
incide in profondità la sconfitta araba nella cosiddetta “guerra
dei sei giorni” del 1967. La disordinata rotta di eserciti
teoricamente potenti coalizzati contro Israele è amaramente posta a
confronto con le reboanti promesse di un Nasser e le minacciose
dichiarazioni di uno Shukeiri (il notabile palestinese collocato
dagli egiziani a capo della prima, fantomatica OLP) (27). Per gli
Harakyin il nazionalismo 'puro' crolla in quei sei giorni, e con esso
ogni residua fiducia nella capacità e volontà di riscatto
anticoloniale di regimi sedicenti “progressisti” (28). Ma la
scossa è salutare. Già il fallimento dell'unificazione tra Egitto e
Siria aveva a suo tempo influito sui primi pronunciamenti dell'MNA a
favore del socialismo (29). La dissoluzione completa di ogni ipotesi
di liberazione affidata alle armate dei governi arabi agevola ora da
un lato la sussunzione integrale del marxismo, dall'altro
l'individuazione della centralità della questione palestinese e
della necessità di una azione autonoma delle forze che se ne
prefiggono la soluzione.
A tali conclusioni si perviene tramite
una seria riflessione, ricca di toni autocritici, sulle esperienze
negative di un passato anche remoto. Si nota ad esempio una
continuità causale tra la sconfitta araba del '67, quella del '49 e
il fallimento della rivolta palestinese antibritannica e antisionista
del 1936. Continuità di cui Ghassan Kanafani, uno dei più brillanti
intellettuali che collaborano con Habash, esporrà più tardi in un
opuscolo le componenti fondamentali:
- la reazione interna;
- i regimi arabi attornianti la Palestina;
- l'alleanza tra imperialisti e sionisti.
E' questo triplice nemico che nel 1936,
e sino alla terza sconfitta subita dal popolo palestinese nel 1967,
ha lasciato le proprie impronte sul movimento nazionale palestinese
in maniera più chiara che in qualsiasi epoca precedente” (30).
L'MNA-FPLP individua dunque nella
presenza di un nemico interno, identificabile negli effendi
(latifondisti semifeudali), nel notabilato tradizionale e nella
borghesia araba, una delle cause della disfatta. Ma ciò significa
passare dalla visione di una società omogenea e omogeneamente
oppressa, tipica del nazionalismo piccolo-borghese, alla
consapevolezza di una stratificazione in classi anche all'interno
della società colonizzata, e quindi di una gamma differenziata di
rapporti (dall'antagonismo, all'acquiescenza, alla coincidenza di
interessi) con i colonizzatori. Consapevolezza che manca e mancherà
sempre ad Al-Fatah e ad altre formazioni di resistenza, per le quali
la comune oppressione subita dai palestinesi d'ogni ceto rende
impossibile e controproducente la coniugazione di lotta di classe e
di lotta nazionale.
PARTE 2.
La replica dell’MNA-FPLP a simili
obiezioni, anche in virtù di un quindicennio di esperienza quale
organizzazione nazionalista e panaraba, è, per bocca di Habash,
puntuale e senza equivoci:
"Naturalmente, la struttura di
classe in una comunità sottosviluppata differisce da quella delle
comunità industriali. In una comunità industriale c'è una forte
classe capitalistica contrapposta a una folta classe operaia, per cui
la lotta fondamentale, in simili comunità, è un acuto scontro tra
queste classi. Tale quadro non si applica alle comunità
sottosviluppate. E' vero. Ma le comunità sottosviluppate sono anche
comunità classiste, nelle quali vi sono classi dominanti
sfruttatrici rappresentate dal colonialismo, dal feudalesimo e dalla
borghesia. Dall'altro lato le classi sfruttate sono rappresentate
dagli operai e dai contadini Ogni classe ha una propria posizione
riguardo al corso della storia e nei confronti della rivoluzione.
Le classi superiori sono conservatrici,
rifiutano il cambiamento e si oppongono al corso della storia, ma le
classi inferiori sono rivoluzionarie, ricercano il cambiamento e
sospingono la storia lungo il suo corso dialettico in avanti. Di
conseguenza, la discussione sulla particolare natura delle comunità
sottosviluppate è scientifica nella misura in cui scientificamente
si limita a sottolineare la peculiare situazione di classe esistente
in queste comunità, e la differenza con la situazione di classe
nelle comunità avanzate. D'altro verso, essa diviene poco
scientifica e condizionata da pregiudizi se trascura la questione
sociale in queste comunità, o minimizza l'importanza della
differente posizione di ogni classe nei confronti della rivoluzione”
(31).
Da cui si vede come l'MNA-FPLP,
riflettendo sulle ragioni delle molteplici sconfitte arabe, non solo
approdi al marxismo, ma elabori un'analisi marxista originale e
autonoma dal retaggio terzinternazionalista. Formulare l'intreccio
indissolubile tra lotta sociale e lotta per l'indipendenza, ponendo
in rilievo la struttura classista delle società sottosviluppate,
vuol dire infatti rompere con un'annosa tradizione teorica che
at-tribuisce un ruolo centrale alle borghesie nazionali del Terzo
Mondo, escludendo o posticipando un contenuto di classe nella lotta
di liberazione. Non è un caso se, in quegli anni, l'Unione Sovietica
circoscrive il proprio sostegno ai regimi arabi ritenuti
'progressisti' (Egitto in primo luogo), trascurando le forze di
resistenza, mentre quasi tutti i partiti comunisti 'ufficiali'
riconoscono solo ad Al-Fatah il ruolo di avanguardia del risveglio
palestinese.
L'originalità analitica dell'FPLP -
che si manterrà intatta anche quando il Fronte, accantonando
l'iniziale ispirazione maoista, perseguirà rapporti amichevoli con
l'URSS - si giustifica alla luce del particolare clima internazionale
in cui ha luogo la trasformazione ideologica degli Harakyin. La
conversione dell'MNA al marxismo e la fondazione del Fronte Popo¬lare
si collocano infatti, temporalmente e politicamente, in quello he
potremmo definire il 'ciclo mondiale di lotte' del 1967-68. Per
quanto la cosa possa stupire, esiste un Sessantotto arabo cosi come
esiste un Sessantotto francese, tedesco, giapponese, italiano o
statunitense. Gli impulsi motori sono gli stessi - rivoluzione
culturale cinese, sacrificio di Che Guevara in Bolivia, guerra nel
Vietnam. Ma se in Europa o in Giappone le conseguenze si esauriscono
inizialmente in un ringiovanimento della sinistra e in una serie di
mutamenti cultural-comportamentali (32), nelle aree del Terzo Mondo
in cui è in atto una guerriglia antimperialista le ripercussioni
sono più profonde. Gli esempi di Cuba, del Vietnam e della Cina
dimostrano tangibilmente alle avanguardie anticolonialiste
l'obsolescenza delle tesi che disgiungono liberazione nazionale e
lotta di classe. Nello specifico, Cuba fornisce il modello di un
movimento nazionalista che giunge ad abbracciare il socialismo,
condannando alla marginalità i partiti comunisti latino-americani
eredi della Terza Internazionale. Il Vietnam dimostra la possibilità
di tenere in scacco l'imperialismo con una guerra di popolo che
include il marxismo nel proprio arsenale di armi. La Cina addita il
nesso tra rivoluzione sociale e rivoluzione culturale, oltre a
fornire, tramite gli scritti di Mao, dettagliate analisi della
struttura di classe e della guerra di guerriglia in una società
sottosviluppata. La svolta marxista degli Harakyin si produce insomma
allorché, su scala mondiale, fa la propria apparizione un marxismo
tradotto in forme adeguate alle realtà del Terzo Mondo.
Ma esiste un terzo elemento,
peculiarmente arabo, che rende ragione della conversione ideologica
dell'MNA-FPLP, e la cui individuazione costituisce probabilmente il
maggiore apporto di Habash alla rivoluzione palestinese. Come lo
stesso Habash non manca di sottolineare ripetutamente (33),
l'efficacia dell'azione della resistenza si smussa da principio
contro lo scoglio di una mentalità araba irrazionale, non
aristotelica, emotiva, irta di incrostazioni mistiche (sulle cui
origini non è qui dato di indagare). Quella stessa mentalità che fa
sì che la poesia sia il genere letterario più coltivato nel mondo
arabo (il culto della parola risale ai primordi di quella civiltà)
(34), ma che impedisce un'individuazione chiara e senza sbavature
della fase, dei compiti, delle forze in campo. Le istanze morali, le
reazioni indignate, gli impulsi di fierezza prevalgono spesso
sull'analisi e sull'osservazione ragionata, dando luogo ad azioni
tanto impetuose quanto incaute, confuse, prive di prospettive a lungo
termine (la guerra del giugno '67 ne è un buon esempio). Anche la
politica, in altri termini, si fa poesia, con tutte le conseguenze
negative del caso. La grande intuizione di Habash consiste nello
scorgere nel marxismo la scorciatoia più diretta, il veicolo più
pratico e più sicuro per sottrarre la rivoluzione palestinese al
dominio dell'impulso e consentirle di accedere a una razionalità di
tipo occidentale (35). Si spiega cosi l'apparente schematismo della
produzione teorica dell'FPLP, caratterizzata dall'essenzialità,
dalle proposizioni scarne, dalle classificazioni insistenti, dalle
enunciazioni elementari. In realtà, la struttura schematica cela una
riflessione marxista niente affatto banale, ma anzi raffinata e
creativa. Il fatto è che, per mezzo della schematizzazione, Habash
tenta di imporre ai suoi fedayin una disciplina di pensiero, di
costringerli a una razionalità e a un rigore logico contrapposti al
pensiero arabo divagante della tradizione. Il marxismo è dunque per
l'FPLP il mezzo per operare un'autentica sovversione culturale,
fondata sull'introduzione di forme laiche e scientifiche di
ragionamento nella lotta contro un nemico che nel pensiero razionale
ha una delle proprie armi più efficaci.
Il Fronte Popolare per la Liberazione
della Palestina nasce dalla confluenza di tre gruppi armati (36). Il
primo. I Giovani della Vendetta, altro non è che un'appendice
guerrigliera palestinese dell'MNA, già attiva alla vigilia della
'guerra dei sei giorni'. Gli Eroi del Ritorno sono invece un
raggruppamento costituito fin dal '66 sotto l'egida dell'OLP (ancora
sottoposta all'influenza egiziana), ma presto conquistato alle tesi
del Movimento Nazionalista Arabo.
Natura peculiare ha il terzo gruppo,
denominato Fronte di Liberazione della Palestina. Sorto nel 1964,
raccoglie sulle prime ufficiali nazionalisti provenienti da vari
eserciti arabi, sotto la direzione di Ahmed Jibril e Ahmed Za'rur,
cui si aggiungono combattenti il cui unico fine è la lotta armata
antiisraeliana (37). Composizione che determina un orientamento
prettamente militarista, privo di contenuti politici spiccati e
suscettibile di condizionamenti da parte dei regimi impegnati, almeno
nominalmente, a contrastare Israele. L'affluenza di simili elementi
nel Fronte Popolare si spiega alla luce dei presupposti che
inizialmente presiedono alla sua costituzione. Nelle intenzioni dei
promotori (38), i compiti di elaborazione ideologica e di guida
politica devono rimanere saldamente affidati all'MNA, la cui
prospettiva globale e la cui caratterizzazione politica consentono la
stesura di piani che oltrepassano la specifica questione palestinese.
Invece il Fronte, come indica il nome stesso, dovrebbe essere una
coalizione di organizzazioni distinte, unite da una comune strategia
militare e da finalità politiche analoghe, per sommi capi, a quelle
adottate dall'MNA in relazione alla Palestina.
Tale suddivisione dei compiti non regge
alla prova dei fatti. Da un lato l'evidente centralità della
questione palestinese fa sì che l'MNA dedichi a essa tutte le
proprie attenzioni. D'altro lato, la stretta collaborazione tra
Movimento Nazionalista e Fronte Popolare rende quest'ultimo
largamente permeabile alle tesi ideologiche e strategiche dibattute
dgli Harakyin. L'orientamento marxista dell'MNA non può dunque non
contagiare il Fronte, e soprattutto l'ala facente capo a Nayef
Hawatmeh - uno dei dirigenti politicamente più preparati e più
sensibili all'evoluzione del marxismo internazionale.
E' soprattutto grazie ad Hawatmeh che
il Fronte perde il proprio carattere composito, sovrapponendosi e
sostituendosi all'MNA quale nucleo politico con funzioni di partito.
Al primo congresso dell'FPLP, svoltosi segretamente in Giordania
nell'agosto del '68, la frazione da lui guidata travolge le cautele
di Habash - favorevole a un'ideologizzazione graduale - e propone un
documento programmatico di chiara impostazione marxista (e di taglio,
per cosi dire, 'sessantottesco'). Bersaglio fondamentale del
documento, più tardi noto come 'Manifesto d'agosto', sono i regimi
arabi - tutti i regimi arabi - che hanno cinicamente utilizzato la
resistenza palestinese per fini di stabilità interna e di prestigio
estero. Atteggiamento che tra l'altro ha significato l'imposizione di
una tattica militare tale da sottrarre alle masse proletarie le armi
per la propria liberazione:
"La vera causa della sconfitta del
'67 dev'essere ricercata nel rifiuto, da parte dei regimi arabi,
della guerra popolare. In realtà, la piccola borghesia temeva tanto
le forze della reazione quanto quelle delle masse popolari. Per
questo ha adottato - sul piano economico - solo delle mezze misure, e
costituito - sul piano militare - solo degli eserciti regolari,
evitando di armare le masse per la lotta liberatrice. (...) Ma il
metodo della guerra popolare, come quello che è stato adottato in
Vietnam e a Cuba, è la sola via che può portare alla vittoria dei
paesi sottosviluppati di fronte alla superiorità tecnica e culturale
dell'imperialismo e del neocolonialismo. Il suo rifiuto significa la
sottomissione al sionismo e al neocolonialismo diretto dagli Stati
Uniti. nemico principale di tutti i paesi sottosviluppati" (39).
Ma simile consapevolezza è mancata
anche alle organizzazioni di resistenza, Fronte Popolare incluso.
Certo, i movimenti di guerriglia non hanno delegato agli eserciti
nazionali l'offensiva contro Israele. Hanno però evitato di
scontrarsi con i regimi arabi, la cui natura oscilla tra il puro e
semplice oscurantismo feudale, la subordinazione all'imperialismo e
un ambiguo progressismo piccolo borghese, che non prevede alcuna
mobilitazione delle masse popolari. La parola d'ordine della "non
ingerenza negli affari interni degli Stati arabi", propria
soprattutto di Al-Fatah ma sostanzialmente adottata da tutte le
formazioni guerrigliere, tende a cristallizzare simile quadro,
ostacolando e indebolendo i singoli movimenti di opposizione
nazionali. Ma soprattutto trascura il fatto che gli Stati arabi
intervengono invece di continuo negli affari palestinesi, proponendo
e imponendo le proprie soluzioni - per cui "non ingerenza"
può paradossalmente giungere a significare "una sorta di non
intervento del movimento di resistenza negli affari palestinesi”
(40). Impostazione evidentemente aberrante, che va duramente
combattuta. La molteplicità dei nemici - imperialisrno, sionismo,
reazione araba - comanda di articolare la lotta su più fronti, e di
proporre soluzioni rivoluzionarie globali per la regione. A questo
fine è però preliminarmente necessario strappare la causa della
rivoluzione araba e palestinese dalle mani della borghesia,
affidandola a operai e contadini:
"Solo queste classi sono
rivoluzionarie, perché non hanno nulla da perdere se prendono le
armi e combattono. Al contrario, hanno tutto da guadagnare: la loro
terra e le loro case. Quelli che presero le armi, dopo la guerra di
giugno, non furono certo i figli dei proprietari feudali e dei grossi
borghesi, bensì i figli degli operai e dei contadini salariati
(...). Certo, l'unità nazionale palestinese è una necessità, ma
solamente se porta alla liberazione. L'unità è quella di tutte le
classi e le forze politiche, ma sotto la direzione delle classi
rivoluzionarie e patriottiche che presero le armi contro
l'imperialismo nel corso della storia della Palestina" (41).
Le posizioni del gruppo stretto attorno
ad Habash non sono dissimili, anche se non mancano, come si vedrà,
sensibili differenze analitiche. Solo che la leadership storica
dell'MNA concepisce la transizione dal nazionalismo al marxismo come
un processo graduale, affidato, almeno per quanto concerne l'FPLP, a
una paziente opera pedagogica condotta dal vertice nei confronti di
una base ancora ideologicamente tentennante. Lo stesso vale per i
rapporti con i diversi regimi mediorientali. Eccetto che in Iraq, gli
Harakyin sono perseguitati quasi dovunque, e vari dirigenti dell'MNA
hanno trascorso anni nella clandestinità e subito lunghi periodi di
detenzione. Lo stesso Habash nel '69 verrà arrestato e condannato a
morte dal governo siriano, e dovrà la libertà e la vita a un'azione
di commando condotta dai suoi uomini. L'atteggiamento della dirigenza
del Movimento Nazionalista nei confronti dei regimi arabi, fatta
eccezione per alcuni elementi effettivamente schierati a destra, non
può dunque essere particolarmente amichevole. Tuttavia è indubbia
una notevole cautela iniziale, volta sia a evitare ulteriori
persecuzioni ai danni delle varie sezioni nazionali, sia a non
alienare i militanti meno consapevoli.
L'iniziativa di Hawatmeh - che riscuote
il consenso della maggioranza dei congressisti, sorprendendo un po'
tutti (42) - tende invece ad accelerare i tempi della trasformazione
del Fronte in partito marxista-leninista. La reazione della
componente puramente militarista dell'FPLP non si fa attendere.
Nell'ottobre del 1968 il gruppo di Ahmed Jibril si separa dal Fronte
popolare, accusando tanto Hawatmeh che Habash di sottovalutare la
necessità del sostegno degli Stati arabi e di voler innescare un
conflitto generalizzato, tale da indebolire la lotta contro Israele.
I dissidenti danno vita a una nuova formazione denominata Fronte
Popolare - Comando Generale, praticamente apolitica (malgrado
un'autodefinizione socialista di maniera) e largamente permeabile
all'influenza dei paesi 'amici' (Siria in primo luogo) (43).
Ma la scissione della 'destra' non
calma le acque tra l' ‘ala sinistra' e il resto del Fronte. Anzi, i
dissidi tra il 'gruppo Habash ' e il 'gruppo Hawatmeh' si aggravano
fino a condurre alla pratica solidificazione di due organizzazioni
distinte, dotate ciascuna di propri corpi dirigenti e di proprie
milizie. Oggetto di contesa non sono solo i tempi più o meno lunghi
della radicalizzazione in senso marxista, o il tema dei rapporti con
i regimi arabi progressisti. Lo scontro si incentra invece sul ruolo
stesso dell'FPLP, che Hawatmeh giudica entità obsoleta (al pari
dell' MNA), sul rapporto con i partiti comunisti mediorientali e
soprattutto sul giudizio relativo alla funzione della piccola
borghesia nella guerra di liberazione (44).
La posizione della direzione storica
del Fronte Popolare su quest'ultima questione viene compiutamente
esposta nel corso del secondo congresso dell'organizzazione (Amman,
febbraio 1969). Nel frattempo, però, la cosiddetta 'ala sinistra',
dopo una serie di incidenti e persino di scontri a fuoco (45), ha
scelto di sancire anche sul piano formale una scissione già operante
di fatto, costituendo il Fronte Democratico Popolare per la
Liberazione della Palestina (FDPLP, o anche FDLP) (46). L'entità del
danno, in termini di sottrazione di quadri brillanti e competenti, è
desumibile dal commento di Habash all'episodio:
"La scissione ci è costata cara,
perché abbiamo perduto della gente molto preparata, dei dirigenti di
valore. Ma siamo riusciti a trasformarci anche senza di loro. Se
fossero rimasti si sarebbe potuto far meglio. Erano un po' infantili,
un po' di estrema sinistra, ma se fossero restati si sarebbe andati
avanti più rapidamente" (47).
PARTE 3.
A differenza del gruppo di Hawatmeh,
che non riconosce ai ceti intermedi un ruolo specifico nella
rivoluzione, Habash vede nella piccola borghesia, o quanto meno nella
piccola borghesia palestinese, un soggetto potenzialmente antagonista
all'imperialismo, al sionismo e alla reazione araba. Simile
riconoscimento nasce da una duplice constatazione. In primo luogo
quella del notevole peso numerico e politico che la classe
piccolo-borghese (negozianti, studenti, artigiani, insegnanti,
impiegati) ha nelle società sottosviluppate, in cui l'assenza di un
tessuto industriale esalta la funzione economico-sociale
dell'artigianato e delle attività terziarie (48). In secondo luogo,
quella della particolare situazione dei ceti medi palestinesi in
rapporto al resto della piccola borghesia araba. Simile analisi è,
ancora una volta, esposta in termini la cui chiarezza non implica
schematismo, ma piuttosto rigore:
"La ragione della presenza della
piccola borghesia alla testa del movimento nazionale palestinese è
che, nella fase della liberazione nazionale, questa classe è una
delle classi rivoluzionarie: oltre al fatto che le sue proporzioni
numeriche sono relativamente estese e che, in virtù delle sue
contraddizioni di classe, essa possiede conoscenza e potere. Di
conseguenza, in una situazione in cui le condizioni della classe
operaia, sotto il profilo della coscienza politica e
dell'organizzazione, non sono ancora abbastanza evolute, è naturale
che la piccola borghesia debba trovarsi alla testa dell'alleanza
delle classi che combattono Israele, l'imperialismo e la reazione
araba. A tutto ciò dobbiamo aggiungere lo speciale carattere della
piccola borghesia palestinese, e la differenza tra la sua posizione e
quella della piccola borghesia araba che governa i regimi arabi
nazionalisti. La piccola borghesia palestinese ha innalzato la
bandiera della lotta. Oggi essa ha un ruolo guida e il fatto che non
sia al potere la rende più rivoluzionaria della piccola borghesia
araba, intenzionata a salvaguardare i propri interessi e a
conservarsi al potere, evitando la lunga e decisiva lotta contro lo
schieramento nemico" (49).
Appaiono dunque chiare le ragioni della
cautela del Fronte nei riguardi dei regimi arabi, assolutamente non
confondibili - malgrado le roventi accuse di Hawatmeh - con la 'non
ingerenza' professata da Al-Fatah o dal Comando Generale. L'FPLP
considera il processo rivoluzionario scandito in fasi e articolato in
livelli giustapposti, uno dei quali - corrispondente alla prima delle
scansioni temporali - è quello della lotta puramente nazionale e del
riscatto antiimperialista. In questo stadio e su questo piano. la
piccola borghesia araba e i regimi nazionalisti (Algeria, Egitto,
Siria, Iraq) svolgono una funzione oggettivamente progressiva, che
non può essere negata senza incorrere in una puerile semplificazione
delle forze in campo. Ma naturalmente esistono una seconda fase e un
secondo livello inscindibili dal primo - quello della rivoluzione
sociale - alla soglie dei quali la volontà di riscossa della piccola
borghesia araba vacilla e finisce con l'arenarsi.
Diverso è il caso della piccola
borghesia palestinese, la cui collocazione politico-sociale reca
indelebilmente le stimmate del trauma originario - la perdita delle
proprie case, delle proprie terre e di tutti i propri beni. Tuttavia
anche qui ogni semplificazione è nociva. L'ampio ventaglio di
condizioni di vita, l'estraneità al processo produttivo, la grande
mobilità sociale verso l'alto o verso il basso ostacolano una
definizione univoca della posizione di questo aggregato in rapporto
alla lotta rivoluzionaria. Sta di fatto che, se la direzione del
movimento deve rimanere saldamente affidata al proletariato, è
proprio nei ranghi della piccola borghesia che le classi subalterne
riescono storicamente a reclutare i propri più fedeli alleati. Il
Fronte Popolare deve dunque impegnarsi in una duplice battaglia. Da
un lato deve acquisire il consenso degli strati piccolo-borghesi,
aprendo le proprie fila ai migliori elementi di questi ceti e
conquistando gli altri a una linea d'azione antagonista. Dall'altro
deve lottare affinché la piccola borghesia (come classe, non come
individui) non acceda alla leadership del movimento, introducendovi
esitazioni e confusione d'intenti. Prima garanzia in questo senso è
l'adozione di un programma politico e organizzativo
inequivocabilmente operaio, tale da convogliare entro precise
direttrici pratico-teoriche la militanza dei quadri di estrazione non
proletaria.
Gli elementi di novità dell'analisi
proposta dal Fronte risiedono essenzialmente nella sua flessibilità,
inconsueta in un movimento di ispirazione
marxista-leninista-rnaoista; nel suo realismo, dal momento che
ammette la presenza della piccola borghesia nei gruppi dirigenti
della resistenza e del Fronte stesso, senza cercare di sovrapporre le
proprie aspirazioni a uno stato di cose con connotati differenti; e
infine nella sua aderenza alla realtà sociale effettiva dei ceti
medi palestinesi.
Quando l'FPLP tiene il suo secondo
congresso, già da due anni Israele ha annesso ai propri territori,
di fatto anche se non di diritto, la striscia di Gaza e la
Cisgiordania (denominata 'Giudea e Samaria'), prive di insediamenti
ebraici e abitate da oltre un milione di arabi, quasi tutti
palestinesi. Sono cosi ricaduti sotto il controllo israeliano i
profughi, esuli dalla Palestina fin dal 1948, stanziatisi in queste
zone.
Sotto un profilo sociale, si tratta per
lo più di salariati agricoli - magari un tempo coltivatori in
proprio – e, in proporzione minore ma non trascurabile, di operai
addetti all'edilizia o alle piccole imprese manifatturiere locali. Vi
è inoltre un'ampia quota di popolazione che vive nei campi profughi,
fruendo dei sussidi forniti dal UNRWA. Ma la figura più tipica, che
le riassume tutte, è forse quella del rifugiato palestinese, che
vive sì nei campi, lavorando però quale bracciante nei poderi
circostanti o recandosi in città - a Gerusalemme, a Hebron, a
Nablus, a Betlemme o perfino ad Amman - a svolgere mansioni di
manovale o di operaio (50).
Questi strati subalterni, che il Fronte
Popolare ha il merito di elevare per la prima volta a soggetto
centrale della rivoluzione, non esauriscono però la composizione
sociale della diaspora palestinese. Oltre a una borghesia araba vera
e propria, composta da notabili, effendi e imprenditori che hanno
conservato nell'esodo i loro beni (avendo già prima del 1948
importanti proprietà all'estero) e che continuano ad arricchirsi
investendo negli emirati del Golfo e in altre zone lontane dai teatri
di battaglia, esiste una variegata fascia sociale intermedia non
assimilabile al proletariato. Si tratta di piccoli coltivatori
diretti o di piccoli affittuari che, procuratisi qualche ettaro di
terra in Giordania, hanno potuto distaccarsi dai campi profughi e
conseguire un certo benessere (la valle del Giordano è rinomata per
la sua fertilità). Oppure di commercianti che. grazie alla parentela
etnica col grosso della popolazione giordana, sono riusciti a
inserirsi nella vita economica locale. O ancora di insegnanti nelle
scuole e nelle università di Hebron, di Nablus. di Gerusalemme e dei
principali centri della regione, di medici, di avvocati, di studenti,
di intellettuali. Una compagine dunque eterogenea, unificata però,
oltre che dalla collocazione sociale (che non li vede né acquirenti
né venditori di forza lavoro), dalla lingua, dalla cultura e da un
forte sentimento nazionale, di solito privo di riflessi egualitari.
Rispetto ad altre piccole borghesie
mediorientali, questi ceti soffrono delle contraddizioni ben
individuate da Habash. Esclusi dal potere per la loro condizione di
stranieri e per l'ordinamento feudale vigente in Giordania (paese
privo di diritto certo, in cui l'omicidio non viene in pratica
perseguito, mentre lo è qualsiasi sintomo di insofferenza politica),
vedono per le stesse ragioni bloccata anche la loro crescita
economica. Le scarse illusioni in questo senso sono d'altronde
dissipate dall'occupazione israeliana del 1967. Oltre a imporre un
regime di controllo militare (con tutte le conseguenze del caso:
arresti arbitrari, uccisioni, umiliazioni, demolizione delle case dei
soggetti 'refrattari', perquisizioni continue (51), i conquistatori
non tardano infatti a vanificare, con la loro consueta sottigliezza
legislativa, la faticosa ricostruzione di una società palestinese in
esilio. Il copione è identico a quello del 1948. Ancora una volta le
ordinanze militari sostituiscono, anticipano o integrano le
disposizioni di legge.
L'ordinanza numero 58 decreta ad
esempio l'acquisizione dei beni dei 'proprietari assenti' nel 1967 da
parte di un conservatore statale, autorizzato a disporne come crede
(52). Ne fanno le spese, ovviamente, i fellahin sfollati nel corso
della guerra, a vantaggio dei coloni israeliani che iniziano ad
affluire in Cisgiordania. Un'altra ordinanza dispone il passaggio
allo Stato di Israele, che le affida a colonie ebraiche, di tutte le
terre adibite a pascolo o coltivate in comune dagli abitanti dei
villaggi arabi. Altre ordinanze ancora consentono l'esproprio di
fondi per le solite ragioni di sicurezza ('area di sicurezza' è
definita quasi tutta la valle del Giordano), per motivi di 'pubblica
utilità' (fra cui rientra l'insediamento di nuovi kibbutzim) o per
mancanza di proprietari individuali identificabili (ma per il codice
ottomano, ancora vigente in Cisgiordania, tutta la terra appartiene
giuridicamente allo Stato, mentre gli agricoltori non ne posseggono
che l'usufrutto).
Per la piccola borghesia palestinese
ricaduta sotto il dominio israeliano, non esiste quindi sviluppo
possibile, né in termini economici né in termini di potere, cosi
come non esiste futuro che non si sostanzi in una proletarizzazione
più o meno rapida. Prospettiva che coinvolge anche coloro che vivono
lontani dalle zone occupate, perennemente prigionieri del timore di
un soprassalto espansionistico di Israele. Una piccola borghesia,
dunque, psicologicamente insicura ed economicamente instabile. Ecco
perché il Fronte Popolare, al pari di tutti i movimenti di
liberazione del Terzo Mondo, vede un massiccio afflusso di giovani di
estrazione piccolo-borghese nei propri ranghi. Ecco, altresì,
l'elemento che consente, secondo le indicazioni di Habash, il
passaggio dal pensiero atavico al pensiero scientifico, determinando
il salto dalla lotta anticoloniale alla rivoluzione sociale e
culturale. Jean Ziegler ha descritto con grande acume il fenomeno:
"La classe intermedia è in
possesso della strumentalità tecnica, militare, simbolica
dell'occupante. I suoi membri sanno analizzare una situazione
economica globale, maneggiare un fucile mitragliatore, leggere una
carta di Stato Maggiore, entrare in contatto con Stati esteri,
mobilitare la solidarietà internazionale, servirsi delle
comunicazioni moderne e organizzare un sistema moderno di logistica.
Questo potere è dunque, in primo luogo, quello conferito dalla
padronanza della strumentalità occidentale. Ma, quando parlo di
strumentalità, non parlo unicamente di sapere tecnologico. La
strumentalità acquisita da questi uomini e da queste donne non si
limita a un qualunque sottoprodotto della meccanica o a una semplice
scolastica dell'attrezzo. Più importanti ancora sono la rottura
epistemologica col sistema ideologico dell'oppressore che questa
avanguardia opera, le analisi inedite che essa sola è capace di
formulare in ogni sequenza dei rapporti dialettici, in cui le
contraddizioni si aprono tra la repressione del nemico e gli atti di
resistenza del movimento di liberazione" (53).
La leadership dell'FPLP, rinnovata dopo
il 1967 dall'apporto di alcuni tra i più vivaci esponenti
dell'intellettualità palestinese (di cui Ghassan Kanafani, scrittore
finissimo, resta l'esempio più illustre), è fedele rappresentazione
di un'avanguardia siffatta. L'accento posto da Habash sul ruolo
fondamentale della piccola borghesia in una società sottosviluppata
denota dunque perspicacia. Ma altrettanto perspicace è l'insistente
esortazione a trasferire la direzione del movimento dalla piccola
borghesia al proletariato. Certo, l'operazione è resa difficile
dalla sovrabbondante presenza, tipica anch'essa del Terzo Mondo, di
masse fluttuanti e disgregate, dotate di coscienza di classe meno che
embrionale, di capacità tecniche scarse o nulle, di un grado
culturale infimo, di doti militari affidate all'istintività (54).
Ciò nonostante, l'avanguardia di estrazione piccolo-borghese è
perfettamente consapevole delle esigue forze di cui dispone, se sola,
la propria classe di provenienza nella lotta contro uno dei tre
principali nemici del movimento di liberazione - il nemico interno,
rappresentato dal ceto dominante di origine feudale e dall'alta
borghesia araba (gli altri due nemici essendo, come si ricorderà, il
sionismo e l'imperialismo occidentale) (55).
La composizione multiforme della
piccola borghesia, la pluralità di interessi rilevabile al suo
interno, la sua stessa funzione economica (parzialmente autonoma, ma
comunque condizionata al mantenimento della struttura di potere
esistente) la rendono incapace di estendere la lotta agli oppressori
esterni fino a inquadrare nella controparte i ceti privilegiati
arabi, vincolati ai ceti intermedi da un troppo organico intreccio di
rapporti commerciali e di relazioni clientelari. Eppure proprio negli
strati privilegiati è constatabile la mai sopita tendenza a
perseguire un accordo o una composizione con lo straniero,
circoscrivendo, soffocando o contraddicendo gli ideali nazionalistici
coltivati dalla piccola borghesia (56). Cosi come a tali strati è
ascrivibile la perpetuazione dell'inferiorità politica ed economica
dei ceti medi, in deciso contrasto con l'autonomia che questi ultimi
aspirano a maturare quali protagonisti della lotta per il riscatto
nazionale.
Di qui l'esigenza, presto avvertibile
nelle avanguardie piccolo-borghesi più sensibili alla contraddizione
tra la propria crescita e il ruolo frenante dei ceti egemoni, di
mobilitare contro il nemico interno il proletariato - classe che, in
virtù della sua predominanza numerica, del suo ruolo nella
produzione e della sua oggettiva divergenza di interessi con i gruppi
dominanti, è la sola potenzialmente in grado di rovesciare le
strutture di comando e di impegnarsi in un conflitto con caratteri di
globalità.
Si tratta però, come si è detto, di
una falange dequalificata e soggettivamente disorganica, priva di
tradizioni rivendicative e di cultura autonoma. Mobilitarla significa
dunque, preliminarmente, costruire in essa una coscienza di classe,
che le permetta un'immediata identificazione delle forze che si
oppongono al soddisfacimento dei suoi bisogni. Significa, altresì,
allettarla nell'unico modo possibile, e cioè introducendo
motivazioni sociali e finalità socialiste nella lotta di
liberazione. Solo in tal modo, infatti, il proletariato può accedere
a quella cultura democratica e nazionalista che è alla base del
risorgimento palestinese, e che tradizionalmente appartiene a fasce
di ceti medi.
Cosi facendo, però, la piccola
borghesia rivoluzionaria finisce con l'alterare la composizione
sociale del movimento e l'ideologia che lo ispira. Lavorando
all'unificazione delle masse subalterne e suscitando in esse la
consapevolezza dei loro interessi collettivi, le trasforma da
aggregato in classe, da coacervo oscillante in forza autonoma.
Inoltre, aprendo la propria ideologia alle istanze e ai bisogni del
proletariato, essa finisce per fare di questi ultimi l'asse teorico
centrale del movimento, sovrapponendo al nazionalismo originario
un'ispirazione socialista sempre meglio definita (il cui approdo è
l'adozione del marxismo-leninismo, quale strumento più affilato per
quel processo di razionalizzazione cui si accennava). Fino a che è
il proletariato stesso, divenuto classe anche sul piano soggettivo, a
prendere le redini della lotta di liberazione in vesti di
protagonista - mentre le avanguardie piccolo-borghesi compiono un
atto di suicidio sociale e di rigenerazione politica, rompendo ogni
residuo legame con i ceti di provenienza e ponendosi al servizio dei
nuovi soggetti rivoluzionari.
Riassumendo, tanto in Medio Oriente che
più in generale in ogni regione del Terzo Mondo, è una frazione
della piccola borghesia che, in opposizione ai ceti dominanti
autoctoni, si incarica di forgiare sotto il profilo soggettivo un
proletariato prima esistente solo a livello oggettivo, elaborando
un'ideologia adeguata alle sue istanze e innestandola sul proprio
originario nazionalismo. Di qui la rapida traslazione - constatabile
non solo nell'FPLP, ma anche nel Movimento Popolare per la
Liberazione dell'Angola, nel Fronte Sandinista nicaraguense, nel
Movimento 16 Luglio cubano, nel Fronte di Liberazione del Monzambico,
ecc - dalla lotta nazionale alla lotta nazional-sociale. Di qui,
altresì. il nesso indissolubile tra il processo di democratizzazione
inizialmente avviato dalla piccola borghesia (democratizzazione che
nel contesto palestinese significa anzitutto laicizzazione,
modernizzazione, pluralismo decisionale) e la rivoluzione socialista
auspicata e condotta da strati proletari gradualmente educati
all'autogoverno.
PARTE 4.
Logicamente, non è tutta la piccola
borghesia radicale a impegnarsi nella costruzione di un'avanguardia
proletaria, ma solo una frazione di essa - distinzione politica che,
nel plurisegmentato quadro della resistenza palestinese, corrisponde
a una speculare distinzione organizzativa. Quanto vale per il Fronte
Popolare o per il Fronte Democratico non vale invece per Al-Fatah,
per Al-Saiqa (gruppo addestrato dai siriani e rigidamente sottomesso
alla loro tutela) o per l'FP-CG. Cosi come solo una frazione del
proletariato palestinese si lascia conquistare dall'educazione
all'autonomia avviata dall'FPLP. Ciò non toglie che la
'proletarizzazione' delle istanze dirigenti del Fronte venga
perseguita con notevole efficacia. Agli inizi del 1970 Gérard
Chaliand, un giornalista e saggista francese, visita una scuola
quadri dell'FPLP nei pressi di Amman e si intrattiene con una
sessantina di allievi. Constata che "l'età media è sui
venticinque anni. Gli operai e i contadini poveri sono circa un
terzo. Metà sono intellettuali o semi-intellettuali, maestri
elementari e studenti. Il resto è costituito da impiegati, artigiani
e piccoli commercianti" (57).
La piccola borghesia, in particolare
nei suoi settori colti, continua dunque a prevalere, ma già si
scorgono i primi segni della trasformazione in atto. Le realizzazioni
decisive investono però il rapporto tra il Fronte (ma ormai potremmo
dire il partito, visto che l'MNA è in via di estinzione) e le masse.
Chaliand osserva che nelle località giordane in cui sorgono sedi del
Fronte, gli uomini di Habash aiutano i contadini nei lavori agricoli,
forniscono loro assistenza medica gratuita, danno vita a
organizzazioni incaricate di migliorarne il tenore di vita. Lo stesso
accade nelle zone industriali, in cui l'FPLP fruisce di un maggiore
radicamento. Qui i fedayin spingono la popolazione a creare i primi
sindacati, promuovono scioperi, tentano con successo di elevare i
salari operai o bracciantili. Inoltre formano sezioni operaie, gruppi
giovanili, milizie femminili (58) - novità, questa, realmente
sconvolgente nel contesto della cultura araba, in cui alle donne è
assegnato un ruolo rigorosamente subalterno.
In definitiva il Fronte Popolare, a
differenza di Al-Fatah (i cui ranghi, in nome del principio della non
ingerenza, sono aperti ai soli palestinesi), cerca di integrarsi nel
territorio umano in cui si trova ad agire, perseguendo un ambizioso
disegno di modernizzazione tanto dei rapporti politici quanto dei
rapporti sociali. Si sforza cioè di modellare un proletariato non
solo cosciente e combattivo, ma anche culturalmente svincolato
dall'opprimente peso della tradizione religiosa (ivi compresa
l'impostazione antisemita della lotta al sionismo (59). Rivoluzione
sociale e rivoluzione culturale devono quindi intersecarsi a ogni
passo. Progetto coraggioso, che trova il proprio più eloquente
simbolo in Leila Khaled - la giovane comandante del Fronte che il 16
settembre 1970 si rende protagonista, a Londra, di un tentato
dirottamento aereo (60). Per l'Occidente è un atto criminoso, ma per
la società araba - palestinese e non - è un traumatico fendente
inferto alla catena di pregiudizi e consuetudini retrive da cui è
avviluppata.
Parallelamente, l'FPLP tenta di
consolidare la capacità di autogoverno delle classi subalterne
arabe, senza distinzione di nazionalità. Riferisce Chaliand,
recatosi a visitare la valle di Ghor, in cui sorge una base del
Fronte Popolare:
"Un grosso proprietario che non si
faceva mai vedere nel villaggio aveva un appezzamento di dieci dunam
(un ettaro) a maggese: i fedayin lo indussero ad accettare che i
contadini, con l'aiuto e la protezione di alcuni di loro,
coltivassero quel suo campo, dandogli in cambio una parte del
raccolto. Tutto questo avveniva all'inizio dell'anno: alcune
settimane più tardi il proprietario regalava il campo ai fedayin, e
da allora non si è più fatto vivo. Si formò allora un comitato di
contadini composto di tre persone, elementi dell'organizzazione
popolare del Fronte; a loro si affiancarono due fedayin. Ogni dieci
giorni, i problemi che sorgono a proposito della lavorazione del
campo vengono discussi nel corso di una riunione del comitato, che
avviene alla presenza dei responsabili della base. Una ventina di
contadini, dopo aver coltivato i propri poderi, si recano a lavorare
nel campo comune e poi riceveranno una quota del raccolto
proporzionale al lavoro prestato. Altre quote andranno al Fronte e ai
membri del comitato” (61).
Un'esperienza di gestione cooperativa
limitata a un podere di un ettaro può apparire trascurabile. Rende
però l'idea della complessità del progetto dell'FPLP, teso non a
una semplice estensione della lotta armata, ma a rendere il movimento
di liberazione nazionale cerniera di un diretto trapasso da rapporti
di produzione feudali a forme produttive socialiste - la cui
radicalità egualitaria non vada a scapito né dell'efficienza, né
della necessaria gradualità del processo di maturazione dei
lavoratori. Per il Fronte Popolare, cosi come per l'intera sinistra
palestinese, la lotta armata è elemento determinante ma non momento
esclusivo. Altrettanto importante è la forza dell'esempio, l'azione
pilota, la costruzione di modelli attraverso il cui potere
d'attrazione sia possibile innescare lo spontaneo sgretolamento delle
forme sociali oscurantiste.
Il tutto in relazione non alla sola
questione palestinese, ma al complesso della cultura e della società
arabe. Come scrive Habash, "la grande lezione che noi dobbiamo
trarre da quanto è accaduto dal 1967 fino a oggi, la lezione prima e
fondamentale è che la rivoluzione palestinese non può essere
vittoriosa se non diviene parte integrante della rivoluzione delle
masse arabe in ogni angolo del nostro mondo arabo. La forza della
nazione araba, le masse della nazione araba costituiscono la forza
capace di vincere” (62). Considerazione che potrebbe essere
rovesciata. Non può esistere rivoluzione araba che non faccia perno
sulla rivoluzione palestinese (il che spiega, tra l'altro, la
dissoluzione dell'MNA contestualmente alla crescita dell'FPLP). Solo
un popolo che ha assistito alla totale distruzione delle proprie
strutture sociali, constatandone cosi l'intrinseca debolezza, e che
si è visto proiettare violentemente in un presente senza radici nel
passato, può raggiungere una disinibizione culturale tale da essere
indotto non a ripristinare l'antico, ma a battersi per una nuova e
diversa società.
La dispersione territoriale dei
palestinesi consegue dunque un duplice risultato. Da un lato
conferisce alla loro identità di nazione una concretezza soggettiva
del tutto inedita, che sconvolge i piani di estinzione culturale
elaborati dal nemico (come a suo tempo - ironia della sorte - era
avvenuto per gli ebrei, trasformatisi da comunità religiosa in
popolo secondo percorsi interamente soggettivi). D'altro lato ne fa
gli agenti di un rinnovamento tumultuoso delle comunità ospitanti.
Ecco perché, nella sinistra palestinese, nazionalismo e rivoluzione
sociale si coniugano a pieno diritto. Ecco altresì perché, in Medio
Oriente, una sinistra con robuste fondamenta deve necessariamente
avere radici nazionaliste. L'emancipazione popolare va di pari passo
con la costruzione di un popolo.
E' facile, a questo punto, intuire la
stretta similitudine che vincola il movimento rivoluzionario
palestinese alle altre forze di liberazione del Terzo Mondo, e al
tempo stesso la singolarità della sua fisionomia. Per quanto
concerne il primo aspetto, va tenuto in considerazione un dato
basilare. Non vi è praticamente movimento di guerriglia degno di
nota che, nel corso del suo sviluppo, non operi per sottrarre
all'avversario porzioni di territorio, sottoponendole per periodi più
o meno lunghi al proprio controllo (63). In queste zone l'esercito di
liberazione procede poi alla costruzione di proprie infrastrutture -
scuole, ospedali, ecc. - fino a dar vita a un autentico sistema
politico-amministrativo autonomo, totalmente svincolato da quello
dominante e tutelato dalla presenza armata dei ribelli. Può
trattarsi di un'intera regione, di un territorio ristretto ancora
conteso (64) o, come a Cuba nel '58-59 o nel Salvador degli anni ‘80,
di un Fronte in movimento (65). Sta di fatto che è nelle 'zone
liberate' che la guerriglia 'si fa Stato', forgiando l'embrione della
nuova società rivoluzionaria e coagulando attorno a essa il consenso
popolare (66).
L'FPLP, e la sinistra palestinese in
genere, operano alla stessa maniera. Solo che la loro peculiare
situazione, che vede la resistenza dislocata esternamente al
territorio nazionale occupato, impone di costruire una controsocietà
- la 'zona liberata' - nel cuore di paesi stranieri. Il che rende
inevitabile il conflitto con le autorità degli Stati ospitanti, poco
propense a veder sorgere aree (per quanto di estensione minima) di
diverso orientamento e politicamente autonome entro i propri confini.
Di qui quella 'ingerenza' a torto rimproverata al Fronte Popolare e
al Fronte Democratico, in occasione della crisi giordana del '70, da
Al-Fatah e dai commentatori allineati alle tesi dei nazionalisti
'puri' (67). Proprio la costante inframmettenza dell'FPLP e dell'FDLP
permette di classificarli tra i movimenti di liberazione
nell'accezione anche sociale del termine. La tattica delle 'zone
liberate' rappresenta infatti uno dei fondamentali criteri di
collocazione in questo senso.
E' tuttavia innegabile che il tentativo
di dar vita a 'basi rosse' in territorio giordano sia all'origine dei
massacri del 'settembre nero' 1970. Ma l'esito catastrofico
dell'azione della sinistra palestinese, in tale occasione, dipende
non dalla natura del disegno di cui si fa portatrice, ma dalle
difficoltà (spesso sottovalutate) incontrate nella sua traduzione in
pratica. Difficoltà di ordine sia oggettivo che soggettivo. Tra le
prime va ad esempio annoverata la condizione minoritaria della
sinistra all'interno della resistenza. E' vero che il Fronte
Popola-re è secondo solo ad Al-Fatah quanto a numero di aderenti, ma
la somma di tutti i gruppi o gruppuscoli semplicemente nazionalisti
(quando non manovrati da Siria o Iraq) rende il divario assai più
ampio, ostacolando un progetto che, per conseguire risultati,
dovrebbe essere globale (68).
Tra le difficoltà di natura soggettiva
spicca invece il differente livello di coscienza delle masse
palestinesi in rapporto a quelle giordane, a tutto vantaggio delle
prime. Ora, un presupposto ineludibile alla creazione di 'zone
liberate' in territorio straniero è l'acquisizione della solidarietà
delle popolazioni locali. In molti casi il Fronte Popolare riesce
effettivamente a coinvolgere il proletariato giordano nella lotta
contro re Hussein, ma altrettanto spesso ne sopravvaluta la
malleabilità culturale e il grado di consapevolezza, producendosi -
tanto a livello di slogan che sul piano del comportamento - in troppo
premature sfide a consuetudini inveterate, senza una preventiva
campagna di sensibilizzazione graduale. Nel corso del suo terzo
congresso (Beirut, 6-9 marzo 1972), il Fronte pronuncerà in
proposito un'impietosa autocrttica:
'Vari gruppi di sinistra commisero
errori infantili, fornendo alle autorità altrettanti pretesti per
seminare confusione e giustificare le proprie lagnanze localmente,
nel mondo arabo e sul piano internazionale. Alcuni furono errori sul
tipo di parole d'ordine adottate, e nella pratica che ne risultò
(come lo slogan 'tutto il potere alla resistenza', che isolò la
resistenza dalle masse giordane). Altri furono errori nella prassi e
nella valutazione delle conseguenze, come nel caso dell'antagonistico
e provocatorio atteggiamento di sfida assunto nei confronti delle
tradizioni e dei costumi delle masse" (69).
Con questo, il Fronte Popolare non
intende certamente mettere in discussione punti programmatici
basilari, come l'emancipazione della donna araba e la laicizzazione
della cultura. Vuole piuttosto condannare il frequente abbandono del
metodo dell'esempio, su cui la tattica delle 'zone liberate' è
interamente fondata, a favore del metodo dell'imposizione, troppo
spesso adottato dai fedayin durante tutto l'arco dell'esperienza
giordana. Non bisogna reprimere usi e comportamenti diversi da quelli
caldeggiati dalla sinistra, ma indurre le masse a modificarli
spontaneamente grazie all'azione esemplare di quadri qualificati. Ciò
vale anche per quanto concerne il grado di coscienza politica:
'Veicoli fondamentali di propaganda
sono quei membri dell'organizzazione politica che lavorano in
profondità tra le masse, conducendo riunioni di gruppo che
illustrino al popolo le sue responsabilità e lo chiamino ad
assolverle. Essi dimostrano anche al popolo come trasformare i suoi
spontanei sentimenti patriottici e di classe in lotta rivoluzionaria
- solo metodo capace di soddisfare i suoi scopi e le sue ambizioni"
(70).
Ma tutto questo richiede
consapevolezza, abilità e abnegazione da parte dei militanti - doti
non facili da reperire allo stato spontaneo tra un proletariato privo
di una memoria di unità e disciplina. Diviene quindi essenziale la
funzione del partito marxista-leninista (assolta, al di là del nome,
dal Fronte stesso), non solo quale fucina di quadri preparati, ma
anche quale educatore collettivo e raffigurazione esplicativa di una
nuova nozione di comunità. E' il partito marxista-leninista, con la
sua struttura di piccolo Stato, che educa un popolo appena uscito
dalla disgregante tutela coloniale a farsi società. Cosi come è il
centralismo democratico, con la sua ferrea regolamentazione dei
diritti e dei doveri, delle attribuzioni decisionali e dei loro
limiti, che introduce i migliori elementi di un proletariato ancora
ricco di connotazioni feudali a sedi di discussione 'guidata' via via
più ampie, secondo uno schema razionale di alto valore pedagogico
altrimenti sconosciuto. Senza partito marxista-leninista, senza cioè
una salda avanguardia consapevole dei fini e internamente organica,
non solo la tattica delle 'zone liberate' sarebbe improponibile, ma
non sarebbe nemmeno configurabile una transizione rapida dal
sottosviluppo alla modernità. Di qui la struttura rigidamente
leninista, che, al pari di molti movimenti del Terzo Mondo,
caratterizza l'FPLP. Non si tratta solo di potenziare l'efficacia
della lotta. Si tratta di formare i quadri dirigenti della società
futura, di cui il partito tratteggia il profilo - per cui il
militante deve essere assai più di un semplice propagandista. Recita
in proposito lo statuto del Fronte:
"Un partito politico
rivoluzionario dovrebbe essere avanguardia e guida delle masse. A tal
fine, i suoi aderenti devono raggiungere un livello di coscienza, di
volontà di lotta e di correttezza di comportamento adeguati allo
scopo. Ne consegue che se un membro del partito perde questa
caratteristica essenziale, è il partito intero a perdere la propria
capacità direttiva (...). Se scompare il confine organizzativo che
separa il membro del partito dal cittadino qualunque, allora il
partito ha perduto la sua posizione di avanguardia e di guida nei
confronti delle masse” (71).
Simile impostazione è evidentemente
dettata, oltre che da quanto si è detto, dai compiti militari che
l'organizzazione deve affrontare nel suo assieme. Il Fronte, infatti,
a differenza di altre formazioni della resistenza palestinese, non
introduce alcuna distinzione tra quadri militari e quadri politici.
Dettaglio motivato non solo dalla concezione della guerriglia propria
dell'FPLP (non guerra tra eserciti, bensì 'lotta di popolo') (72),
ma anche dalla peculiare impostazione della lotta armata dettata
all'intera resistenza dalla sua dislocazione extraterritoriale.
In questo campo, l'assoluta singolarità
della posizione dei fedaytn (e anche la loro grande debolezza) in
rapporto ad altri movimenti di liberazione emerge con drammatico
rilievo. Operando oltre le frontiere di Israele, la resistenza
palestinese non può condurre un'autentica guerra rivoluzionaria
(come pare credere l'FPLP, che impropriamente si richiama agli esempi
cubano e vietnamita). Il territorio nazionale è interamente occupato
da un popolo estraneo e ostile, né i nuclei di palestinesi rimasti
in patria possono spingersi oltre la pratica della disobbedienza
civile e dell'attentato sporadico. Vi sono, è vero, le centinaia di
migliaia di palestinesi che abitano la striscia di Gaza e la
Cisgiordania. Ma il cuore dello Stato israeliano risiede entro i
confini fissati nel '47, e non nelle zone conquistate
successivamente; mentre lo stesso cuore della resistenza palestinese
fino al luglio '71 si trova in Giordania, e poi in Libano. Non è un
caso se la guerriglia nei territori occupati (condotta tra gli altri,
con grande abilità, da un militante dell'FPLP soprannominato Guevara
Gaza, ucciso nel '73) cede il posto ad altre forme di azione via via
che i fedayin, incalzati dalle controffensive israeliane e giordane,
sono costretti ad allontanarsi dalla frontiera.
PARTE 5
La guerriglia palestinese ha dunque
valore simbolico, nel senso che non si prefigge direttamente la
riconquista del territorio nazionale. ma persegue obiettivi
collaterali cosi riassumibili (seguendo parzialmente una traccia
fornita dallo stesso Habash) (73):
- Impedire che lo Stato di Israele possa stabilizzarsi sia sul piano organizzativo che, soprattutto, sul piano della "sicurezza psicologica". Ciò è tanto più importante in quanto Israele vive sull'immigrazione. Le improvvise incursioni dei fedayin, all'apparenza slegate e non molto efficaci, tendono appunto ad arrestare il flusso migratorio, rendendone negativo il saldo (come in effetti risulta sia avvenuto). Anche azioni come l'attentato del 22 novembre '68 al mercato Mahane Yehuda di Gerusalemme (12 morti), rivendicato dall'FPLP. o l'esplosione di un ordigno su un autobus di Tel Aviv, il primo aprile 1969 si spiegano (senza volerle giustificare) nel quadro di questa tattica - ispirata più dal FLN algerino che dai vietcong o dai guerriglieri castristi.
- Danneggiare l'economia israeliana, fragilissima e in pratica puntellata dai sussidi statunitensi (magari fino a rendere il sostegno di Israele un onere troppo gravoso per i governi alleati). Tra le azioni dell'FPLP, tendono a questo scopo la distruzione della rete elettrica nel nord del paese, attuata nel dicembre '67; il sabotaggio, nel giugno '69, all'oleodotto del Mar di Galilea (che, inquinando le acque e impedendo la pesca, infligge un duro colpo ai kibbutzim rivieraschi; e soprattutto l'assalto con natanti a una petroliera israeliana negli stretti di Bab Al-Mandeb, nel giugno '71, che ha l'effetto di svelare, con grande imbarazzo degli interessati, l'uso che Iran e Arabia Saudita fanno dell'oleodotto di Israele (74).
- Dimostrare la sopravvivenza dell'identità nazionale del popolo palestinese, il profondo radicamento delle sue istanze e la sua determinazione - scopo che, di tutti, è indubbiamente quello meglio raggiunto (75), ed è dall'FPLP principalmente affidato ai dirottamenti aerei (di cui si parlerà fra breve).
- Un quarto obiettivo - l'innesco nella società israeliana di contraddizioni politiche e sociali tali da indurre il proletariato ebraico all'insubordinazione (76) - non viene invece conseguito che in misura irrilevante. A parte i rapporti che il Fronte Democratico intrattiene per qualche tempo con il gruppo di estrema sinistra Matzpen, il dialogo a distanza con le Pantere Nere di Israele (organizzazione di ebrei sefarditi, soggetti a discriminazione razziale per la loro origine non europea) (77) e le discrete relazioni con uno dei due partiti comunisti israeliani (il Rakah, a composizione però quasi esclusivamente palestinese) (78), l'alleanza con il proletariato ebraico resta nel limbo delle petizioni di principio. Anche gli strati inferiori della società israeliana godono pur sempre di una posizione privilegiata nei confronti della minoranza araba, né la questione sociale può aggravarsi al punto da spegnere in essi il sentimento nazionale.
La singolare natura della guerriglia
palestinese trova riscontro nell'analoga singolarità del
colonialismo israeliano, diverso da qualsiasi altro per origine e per
sviluppo. Il movimento sionista (che si identifica nello Stato di
Israele, e nel quale lo Stato si identifica a sua volta quasi
completamente) non punta a dominare o a sfruttare la popolazione
araba (anche se Gaza e Cisgiordania forniscono, all'occorrenza,
abbondante manodopera a buon mercato) (79). Punta invece a un totale
annientamento della presenza araba in Palestina, giustificato non da
motivazioni puramente economiche, ma sulla base di una ricostruzione
storica di natura essenzialmente mistica.
Il conflitto è dunque assoluto, senza
mediazione o composizione possibile; la lotta tende costantemente ad
assumere i caratteri di sterminio. Ogni israeliano, militare o
civile, è agli occhi dei palestinesi un occupante e un usurpatore,
contro il quale è legittimo l'impiego di qualsiasi arma. Ogni
palestinese, civile o guerrigliero, è agli occhi degli israeliani un
alieno minaccioso e ingombrante, da neutralizzare, allontanare o
sopprimere. Se l'FPLP si propone statutariamente "la distruzione
di Israele in quanto Stato" (80), Israele persegue, in tutte le
sue componenti politiche principali, l'eliminazione fisica dei
fedayin e la cancellazione dalla geografia, dalla politica e persino
dalla memoria storica dei palestinesi in quanto popolo distinto. Né
potrebbe essere altrimenti, salvo il venir meno della stessa identità
israeliana.
La contrapposizione è accentuata dalla
cultura di tipo europeo, solcata da venature colonialistiche e
razzistiche, che gli israeliani rivendicano e che li induce a non
vedere altro che barbarie all'esterno della propria oasi fortificata.
E' questa, del vincolo culturale con l'Occidente, una carta vincente
sotto più di un profilo. Oltre a rendere 'accettabile' il virtuale
genocidio identitario posto in atto ai danni dei palestinesi (che,
secondo un metro eurocentrico, rappresentano una popolazione
arretrata indistinguibile da quelle confinanti), permette infatti di
acquisire l'automatica solidarietà del vecchio continente, lieto di
trasferire agli arabi la responsabilità morale accumulata con le
persecuzioni antisemite succedutesi in Europa fino a metà del XX
secolo. Consente inoltre a Israele di proporsi quale avamposto della
civiltà occidentale nei confronti dei movimenti anticoloniali e
delle forze che li sostengono, collocandosi all'intersezione dei
conflitti Nord-Sud ed Est-Ovest e divenendo, con ciò stesso, pedina
irrinunciabile dello schieramento guidato dagli Stati Uniti.
Non che Israele sia mero strumento
dell'imperialismo, come anche l'FPLP pare credere (81). Il rapporto
tra l'espansionismo israeliano e l'imperialismo statunitense, che
risale alla nascita dello Stato ebraico (82), più che di
subordinazione del primo al secondo è di strumentalità reciproca.
Se c'è un 'agente' degli Stati Uniti in Medio Oriente è l'Arabia
Saudita (83). Israele gode invece di un ampio margine di autonomia,
intrecciando con i propri presunti 'mandatari' relazioni talora
basate sulla comunanza di interessi, talaltra su veri e propri
ricatti di natura sia materiale che morale. Il fatto è che l'azione
di Israele non è interamente riconducibile a incentivi di carattere
economico o politico. La sua natura di Stato apertamente
confessionale, l'origine religiosa (e non etnica o storica) del suo
insediamento e della sua dilatazione territoriale, fondano la scelta
israeliana a favore dell'Occidente non solo su epidermiche ragioni di
convenienza, ma anche sull'appartenenza a una medesima cultura
giudaico-cristiana ritenuta - sulla scorta dei pregiudizi del
colonialismo classico - per definizione superiore. Non è
l'espansionismo israeliano a dettare a posteriori la propria
giustificazione morale. E' un ancestrale retroterra etico ad avere
nel colonialismo e nell'espansionismo il proprio corollario pratico.
Qui risiedono i motivi profondi della
battaglia a difesa della supremazia occidentale, di dimensioni
addirittura planetarie, in cui Israele si trova sin dagli inizi
impegnato (quale che sia il governo in carica). Battaglia i cui
momenti salienti sono l'entusiastico sostegno alla dittatura haitiana
di Duvalier o a quella nicaraguense dei Somoza, l'azione contro il
movimento di liberazione algerino, l'appoggio fraterno al governo
razzista del Sud Africa, l'aiuto diplomatico e in armamenti offerto
alle più sanguinose tirannie dell'Africa e dell'America Latina. Non
esiste episodio di rilievo del conflitto Nord-Sud che non veda
Israele farsi parte attiva a fianco delle forze conservatrici - si
tratti dello sterminio degli indios guatemaltechi o del mantenimento
dell'apartheid nella repubblica sudafricana. E ciò anche quando
nessun interesse immediato è individuabile, o quando le potenze
imperialistiche si sono già ritirate dalla lotta (come è il caso,
in anni recenti, del Nicaragua).
Entro simile cornice la guerriglia dei
fedayin acquista dimensioni politico-sociali dilatate, essendo
rivolta a un tempo contro due civiltà - la civiltà araba
tradizionale e la civiltà colonialista occidentale. Come far fronte
a un simile compito? Le soluzioni proposte dalle due principali
correnti della resistenza (Al-Fatah e FPLP) sono assai diverse tra
loro. Dal momento che una rivoluzione interna a Israele è
impossibile, Al-Fatah punta ad un coinvolgimento militare dei paesi
arabi, attenuando ogni polemica nei loro confronti e facendosi, pur
nel quadro di una rigorosa autonomia, forza coagulante dell'intera
nazione araba. La stessa guerra di guerriglia, che causa al nemico
perdite irrilevanti (anche se amplificate da comunicati del tutto
inattendibili), pare indirizzata più a sensibilizzare i governi
potenzialmente alleati che a scardinare lo Stato nemico.
Considerazione parzialmente riferibile anche all'azione
internazionale (condotta tramite l'OLP, organizzazione pluralista ma
largamente egemonizzata dal gruppo di Yasser Arafat), tesa a
conseguire sul piano politico una vittoria irraggiungibile sul piano
militare, se non col concorso dei paesi 'amici'.
Assai differente la condotta dell'FPLP,
data la diversa natura dei suoi obiettivi. Anche il Fronte comprende
che le sole energie palestinesi non possono piegare Israele. Si
tratta dunque di coinvolgere gli Stati arabi circostanti. Ma non
quali essi sono, come per Al-Fatah, bensì dopo aver avviato in essi
dei processi di trasformazione rivoluzionaria, in cui la resistenza
palestinese funga da detonatore chiamando all'azione le popolazioni
autoctone. Sarà la coalizione degli Stati sorti sulle rovine dei
regimi reazionari che potrà aver ragione di Israele a fianco e sotto
la guida dei fedayin. Reazione araba e sionismo vanno quindi
abbattuti senza soluzione di continuità, nell'ambito di un medesimo
sollevamento globale.
Ma, come si è detto, esiste un terzo
nemico - l'imperialismo - alla cui tutela le altre forze sono
sottoposte. Occorre allora fornire alla resistenza un vasto sostegno
internazionale, capace di paralizzare la rete di alleanze che difende
Israele e gli Stati arabi reazionari. Ciò è possibile non tanto
tramite una generica attività diplomatica (il rapporto dell'FPLP con
l'OLP è discontinuo e talora teso), quanto attraverso una stretta
collaborazione con gli altri movimenti di liberazione e un ancor più
stretto legame con l'Unione Sovietica (che presto sostituisce quale
referente la Cina, dedita a una politica estera a dir poco
incoerente) (84).
Non che il Fronte Popolare sia
totalmente subordinato alle indicazioni dell'URSS (come lo sarà il
Fronte Democratico dalla metà degli anni '70). I punti di frizione,
alla luce della politica mediorientale sovietica (ratifica nel 1967,
in sede di Consiglio di Sicurezza dell'ONU, dell'occupazione dei
territori confinanti da parte di Israele; rapporti privilegiati con
gli Stati arabi anche a detrimento della resistenza, ecc.) sono anzi
numerosi. Scriverà Habash nel 1974, all'epoca del cosiddetto "fronte
del rifiuto":
"I Sovietici sono nostri amici,
teniamo alla loro amicizia. Ma, a imitazione dei rivoluzionari
vietnamiti, noi dobbiamo mobilitare tutte le alleanze e metterle al
servizio della strategia e della tattica della Rivoluzione. Come
loro, dobbiamo evitare che il nostro attaccamento a questa amicizia
con i Sovietici ci porti a subordinare gli interessi della
Rivoluzione a quelli di un alleato, chiunque esso sia. Devo insistere
tanto sull'amicizia dei Sovietici, sulla sua importanza e sulla
nostra sincera gratitudine nei loro confronti, quanto affermare che
spetta a noi elaborare i nostri programmi. Ed è possibile che
compaiano tra queste due posizioni delle contraddizioni fondamentali:
non potremo ignorarle, e farlo sarebbe cadere in una specie di
dipendenza che ostacolerebbe il cammino della Rivoluzione”
(85).
Risulta evidente che il Fronte Popolare, al pari di molti altri movimenti di liberazione, giudica indispensabile l'appoggio sovietico, l'unico in grado di consentire la conduzione e il successo di una guerra rivoluzionaria prolungata. Ma al tempo stesso comprende la necessità di salvaguardare la propria autonomia decisionale, a fronte di un alleato il cui aiuto non è sempre disinteressato e il cui impegno internazionalista cela un opportunismo talora cinico (anche se mai quanto quello cinese).
Risulta evidente che il Fronte Popolare, al pari di molti altri movimenti di liberazione, giudica indispensabile l'appoggio sovietico, l'unico in grado di consentire la conduzione e il successo di una guerra rivoluzionaria prolungata. Ma al tempo stesso comprende la necessità di salvaguardare la propria autonomia decisionale, a fronte di un alleato il cui aiuto non è sempre disinteressato e il cui impegno internazionalista cela un opportunismo talora cinico (anche se mai quanto quello cinese).
Sta di fatto che, dovendo combattere
con poche migliaia di uomini un'intera coalizione di Stati, sorretta
e guidata dalla maggiore potenza occidentale, l'FPLP non può evitare
di inserirsi in un arco di alleanze altrettanto articolato. Ma il suo
ruolo, come quello di Israele sull'opposto versante, non è passivo
né subalterno. Come lo Stato sionista alimenta e difende le forze
conservatrici di tre continenti, cosi l'FPLP, in forma del tutto
speculare e di propria iniziativa, apre i campi di addestramento del
Libano ai militanti dei principali movimenti di guerriglia del Terzo
Mondo (86). Il confronto col nemico assume cosi dimensioni che non è
esagerato definire titaniche. Agenti del Mossad percorrono ogni
angolo della terra alla ricerca di capi della resistenza palestinese
da sopprimere (vittima illustre di simile caccia all'uomo sarà, tra
le file del Fronte, Ghassan Kanafani, assassinato con la nipote nelle
vie di Beirut 1'8 luglio 1972). Dal canto loro, i fedayin di Habash
iniziano ad attaccare direttamente - sulle prime in forma incruenta e
puramente dimostrativa - i paesi occidentali che accordano a Israele
il loro sostegno.
Rientra in questo contesto la serie dei
dirottamenti aerei - culminata con quello, clamoroso, iniziato il 6
settembre 1970 e conclusosi con la distruzione di quattro velivoli
(uno svizzero, uno inglese e due statunitensi). La reazione
dell'Occidente, malgrado l'assenza di vittime, è rabbiosa - in
flagrante contrasto, sia detto per inciso, con l'indifferenza
manifestata nei riguardi dei continui bombardamenti israeliani sui
campi profughi situati in Libano, che causano invece innumerevoli
perdite umane (87). Lo stesso si può dire per il temporaneo
sequestro degli ospiti stranieri di due alberghi di Amman, nel giugno
1970, operato al fine di porre termine alle rappresaglie
dell'aviazione di re Hussein contro i rifugiati palestinesi in
Giordania (88).
Formalmente condannata dall'OLP (che
giunge a sospendere per qualche mese il Fronte), la tattica
dell'attacco diretto ai paesi che armano Israele non tarda in realtà
a contagiare le altre formazioni guerrigliere. L'organizzazione
Settembre Nero, collegata a un'ala di Al-Fatah, attua il 18 maggio
1972 un dirottamento aereo che si conclude con l'uccisione di tre
fedayin. Seguono altre azioni, tra cui il sequestro (sfociato in un
massacro generale) degli atleti di Israele partecipanti alle
Olimpiadi di Monaco - giustificato con l'illegittimità di una
rappresentanza atletica proveniente da un paese sottratto ai nativi
(89).
Dal canto proprio, lo Stato di Israele
reagisce alle ferite inflittegli versando torrenti di napalm (da
aerei di fabbricazione europea o statunitense) sugli attendamenti dei
profughi della Palestina, dovunque essi sorgano. Lungo tutto il 1972
la guerra si imbarbarisce progressivamente. Il 26 febbraio la
fanteria e l'aviazione israeliane compiono un raid punitivo nel
Libano meridionale, uccidendo undici civili e ferendone una
cinquantina. Il 30 maggio tre militanti dell'Armata Rossa giapponese
- un gruppetto di ispirazione trotzkista - scendono per conto
dell'FPLP all'aeroporto israeliano di Lod aprendo il fuoco sulla
folla. I morti sono 28 (inclusi due membri del commando), i feriti
oltre 90. Motivo dell'attentato, secondo il comunicato del Fronte
(90), vendicare i tre dirottatori di Settembre Nero uccisi sempre a
Lod 18 giorni prima e scoraggiare il turismo in Israele. Quale
rappresaglia, il 30 maggio mezzi corazzati israeliani, scortati da
una squadra di Mirage, attaccano i campi profughi del Libano,
uccidendo 48 rifugiati e ferendone 55. Una nuova incursione, condotta
nei giorni successivi alla strage di Monaco, provoca tra gli esuli
altre 200 vittime civili. Parallelamente, proseguono le esecuzioni
individuali da parte degli agenti del Mossad. Dopo Ghassan Kanafani è
Wail Adel Zuaiter, militante di Al-Fatah e rappresentante dell'OLP in
Italia, a essere assassinato a Roma il 16 ottobre.
La lotta tra gli antichi abitatori della
Palestina e i nuovi occupanti non conosce ormai confini.
NOTE:
1) Cfr S. Hadawì, Idee chiare sulla Palestina, in AA.VV., La lotta del popolo palestinese, a cura C. Pancera, Milano, 1969, pp. 52-53. Per una rassegna delle principali risoluzioni dell'ONU sulla Palestina cfr l’opuscolo Le Nazioni Unite e la questione palestinese, Roma 1975.2) Per la dinamica degli eventi cfr. L. Gaspar, Hìstoìre de la Palestìne, voI. II, Parìs 1978; N. Weinstock, Storia del sionismo, vol. II, Roma 1970; S. Hadawì, Raccolto amaro. La Palestina dal 1914 al 1968, Roma, 1969, capp. VI e VII (che espone in prima persona, non senza qualche enfasi, il punto di vista dei Palestinesi stessi). Una ricostruzione sintetica vicina alle tesi del movimento sionista (fino a ignorare, in sede di bibliografia, l’abbondante letteratura prodotta in campo avverso) è in R Balbi, Hatikvà. Il ritorno degli ebrei nella Terra Promessa, Bari, 1983, pp. 129-143. Per quanto attiene alle origini della questione palestinese - la cui trattazione esula dai limiti di questo saggio - rinvio a quella che mi pare l'opera più esauriente sul tema: M. Massara, La terra troppo promessa. Sionismo, imperialismo e nazionalismo arabo in Palestina, Milano, 1979 (comprendente anche una vasta bibliografia).3) Cfr. S. Geries, Gli arabi in Israele, Roma, 1970, pp. 188 SS.; AA.VV., Dossier Palestina. Testimonianze sulla repressione israeliana nei territori occupati, Verona 1974, pp. 59-63.4) Cfr AA. VV., Dossìer Palestina, cìt., pp. 56-58. Il volume si basa su rendiconti di testimoni insospettabili.5) 1vi. pp. 57-58.6) Cfr. B. e N. Khader, La lunga marcia del popolo palestinese, introduzione a OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, Testi della rivoluzione palestinese. 1968-1976. Verona 1976. pp. 91-93.7) Ivì p. 93. Sulla resistenza dei profughi palestinesi a un' assimilazione da parte delle altre popolazioni arabe cfr. S. Hadawì, Raccolto amaro, cìt., pp. 183-187.8) Per le quali cfr. B. e N. Khader, op. cìt., pp. 89-91; S. Gerìes, op. cìt., pp. 278-299.9) Sull'episodio. citato con ricchezza di dettagli in ogni opera sulla Palestina, cfr. B. Uddine Toukan, Nella ricorrenza del massacro di Deir Yassin: 9 aprile 1948, Roma. 1969. Della strage. operata dall'Irgun e dalla banda Stern, rimasero vittime 254 persone, in maggioranza donne (35 delle quali incinte).10) Cfr. S. Hadawi, Raccolto amaro, cìt., pp. 210--211; Id., Idee chiare, cit., p. 81. Le cifre relative al periodo sono però assai incerte, e variano a seconda delle fonti.11) Sulla legislazione antiaraba e sui suoi effetti, talora paradossali, cfr. S. Geries, op. cit., pp. 190 SS. Cfr. inoltre M. B. Tosi, Anatomia di Israele. Milano, 1972, pp. 127-144; S. Hadawi, Palestine: loss of a heritage, S. Antonio, 1963; S. Geries, The legal structures for the exproprìatìon and absorbtion of Arab lands in Israel, in "Journal of Palestìnian Studies", 1973, n.4.12) Cfr. S. Geries, Gli Arabi in Israele, cìt., p. 193; E. Facchini, C. Pancera, Dipendenza economica e sviluppo capitali¬stico in Israele, Milano, 1973, p. 251.13) Cfr. G. Badi. Fundamental laws of the State of Israel, NewYork, 1960, pp. 156 ss.14) Cfr. S. Hadawi, Raccolto amaro, cìt., pp. 216-217.15) Cfr. S. A. Sayegh. La discriminazione verso gli arabi nell'istruzione in Israele, in AA. VV., La lotta del popolo palestinese, cìt.; Not two peoples - one people (intervista a Riad Al-Abìd Rasheed Abu Awad, leader studentesco palestinese), in "FPLP Bulletin", 1979, n. 28, p. 9.16) Cfr. F. Langer, La repressione di Israele contro i Palestinesi, Milano, 1977. Felicia Langer è un'avvocatessa israeliana.17) Cfr. B. e N. Khader, op.cit., p. 87; M. B. Tosi, op. cit., p. 135.18) Cfr. E. Facchini, C. Pancera, op. cit., p. 97; D. Meghnagì, La sinistra in Israele, Milano, 1980, pp. 42-43.19) Cfr. la testimonianza di A. Ben Yona in AA. VV., Dossier Palestina, cit., pp. 368-369.20) Ivi, pp. 369-370; E. Facchini, C. Pancera, op. cit., pp. 254 e 256.21) Cfr. B. e N. Khader, op. cit., p. 9322) Cfr. OLP, AL-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., p. 253. Il Movimento Nazionalista Arabo è stato spesso oggetto di ricostruzioni sommarie o denigratorie, fino a essere definito addirittura "una forma di fascismo sottosviluppato" (cfr. R Ledda, La battaglia dì Arnman, Roma 1971, p. 73). a scopi polemici nei confronti dell'FPLP. L'opera più completa ed equilibrata sul tema è però B. Kubeissi, Storia del Movimento dei Nazionalisti Arabi, Milano, 1977.23) Cfr. J. Ziegler, Les Rebelles. Contre l'ordre du monde. Mouvements armés de lìbération nationale du Tiers Monde, Paris, 1983, pp. 368 ss.24) Ivi, p. 369.25) PFLP. A strategy for the lìberatìon of' Palestìne, Amman, 1969, p.100.26) Ivì, pp. 99-100.27) Su questo personaggio - tipico esponente del notabilato palestinese - e sulla sua deleteria azione, cfr. M. Rodìnson, Israele e il rifiuto arabo. Settantacinque anni di storia. Torino, 1969, pp. 131 ss.28) Lo stesso avviene nell'intero mondo arabo, determinando un crollo di consenso popolare attorno al nasserismo e alle sue varianti nazionali. "Nel 1968, il simbolo del guerrigliero palestinese comincia a prendere il posto, nel cuore delle masse arabe, del demagogico leader militare. ( ... ) Una lunga fase di repressione dell'iniziativa patriottica e democratica delle masse, mascherata dall'illusione che regimi autoritari e burocratici possano conquistare una vera indipendenza, sta per finire. I popoli arabi lo capiscono ancora confusamente, all'indomani della disfatta. Ma lo capiranno meglio man mano che si inaspriscono le contraddizioni tra la loro volontà di combattere e la politica di camuffata capitolazione dei dirigenti". M. Husseìn, La lotta di classe in Egìtto, 1945-1970, Torino, 1973, P.284.29) Cfr. G. Chaliand, La Resistenza Palestinese, Milano, 1970, pp. 178-179. In appendice al volume di Chalìand, a dir poco ingiusto nei confronti del Fronte Popolare, l'editore italiano ha pubblicato un saggio dello stesso autore (Le double combat du Front Populaire, apparso in Le monde diplomatique del luglio 1970) in cui vengono radicalmente modificati i precedenti giudizi. A esso appartengono le pagine cui si rinvia nella presente nota.30) G. Kanafani, La rivoluzione palestinese del 1936-1939. Analisi, dettagli, retroscena (in arabo), Beìrut, 1974, p. 7. Come si dirà, Ghassan Kanafani venne assassinato a Beìrut nel luglio 1972. Quella citata è una riedizione, a cura dell'FPLP, di un saggio pubblicato pochi mesi prima della sua morte.31) PFLP, A strategy, cìt., pp.21-22.32) Questo per quanto riguarda il 1968. Già nel 1969 i moti di protesta inizieranno a investire le strutture dell'occidente capitalistico, quantomeno in Italia.33) Cfr. G. Chaliand, op. cit., p.185; PFLP, A strategy, cit., pp. 4-6.34) Cfr. R. Kalisky, Storia del mondo arabo, vol.I, Verona, 1972, pp. 39-42.35) Cfr. PFLP, A strategy, cìt., cap.XIII.36) Cfr. OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., p.235. Cfr. anche PFLP, A strategy, cìt., pp. 131 ss.; G. Chaliand, op. cìt., p. 100.37) Cfr. OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cìt., pp. 331-332.38) Cfr. PFLP, A strategy, cìt., pp. 131-132.39) Manifesto del primo congresso clandestino, in OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., pp. 286-287.40) Ivi, p. 288.41) Ivi, pp. 289-290.42) Ivi, p. 281.43) Sul FPCG cfr. OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., pp.331-333.44) Questi temi sono approfonditi in PFLP, Il Fronte e la questione della scissione (in arabo), Beìrut, 1970, che rappresenta uno dei testi teorici più importanti prodotti dal Fronte Popolare.45) Ivi, cap. IV.46) Il manifesto programmatico dell'FDPLP è riprodotto in C. Moffa (a cura di). La resistenza palestinese, Roma, 1976, pp.78-83.47) G. Chaliand, op. cit., p. 186.48) Cfr. PFLP, A strategy, cìt., p. 27.49) lvi, p. 32.50) Figura 'tipica' non equivale, naturalmente, a figura 'maggìorìtarìa' né 'prevalente'. A tale proposito va osservato che esistono profonde differenze nella composizione sociale riscontrabile, rispettivamente, nella striscia di Gaza e in Cisgiordania. La percentuale dei palestinesi ospitati nei campi profughi è maggiore nella prima che nella seconda regione, così come l'incidenza della manodopera disoccupata. D'altra parte la Cisgiordania comprendeva, prima dell'occupazione, il 48% delle industrie esistenti nel regno hashemita. Vi è dunque presente una classe operaia assai folta, che percentualmente costituisce la maggioranza della forza-lavoro attiva. Per un'analisi particolareggiata cfr. E. Facchini, C. Pancera, op. cit., pp. 279-288. Superficiali appaiono invece le considerazioni di G. Chalìand, che nega la presenza in Cisgiordania di un vero e proprio proletariato. Cfr. G. Chaliand, op. cit., pp. 194-196.51) Cfr. AA. VV., DossierPalestlna, cìt.52) Per una rassegna della legislazione israeliana tesa all'acquisizione di terre nei territori occupati, cfr. J. Kuttab, Au nom d'une loi injuste, in “Le Monde Diplomatique”, settembre 1983; M. B. Tosi, op. cit., pp. 144 ss. La. storia emblematica di una città della Cisgiordania sottoposta al dominio coloniale israeliano è narrata nell'articolo Judaizing Al Khalìl - Historical background, in “PFLP Bulletin”, 1983, n° 68.53) J. Ziegler, op. cit., p. 371.54) Può essere agevolmente generalizzata all'intero Medio Oriente l'analisi del proletariato egiziano condotta in M. Hussein, op. cit., pp. 31-39.55) Cfr. G. Habash, I nemici della rivoluzione, in OLP, Al-Fatah, FPLP, FDLP, op. cit., pp. 238-249.56) Cfr. PFLP, A strategy, cit., pp. 34-35.57) G. Chaliand, op. cit., p. 187.58) Ivi, p. 182.59) “La. nostra rivoluzione non ha carattere razzista. Non vuole gettare a mare gli ebrei, come pretendono calunniatori e nemici. La. nostra rivoluzione si batte per una reale alleanza tra tutte le forze oppresse e perseguitate all'interno di Israele, nel cui interesse dev'essere operato un radicale cambiamento rivoluzionario nella regione. L'obiettivo strategico della rivoluzione è uno Stato democratico e amante della pace, legato alla nazione araba e al movimento progressista mondiale”. G. Habash, The revolutionary task, s. l., s. d. (ma Beirut, 1973), pp. 8-9. Espressioni analoghe ricorrono in tutti i documenti de1I'FPLP, a cominciare dall'articolo 9 dello statuto.60) Sulla personalità di Leila Khaled, divenuta in seguito dirigente dell'organizzazione femminile dell'FPLP, cfr. il volume da lei stessa scritto: L. Khaled, Mon peuple vivra, Paris, 1973.61) G. Chaliand, op. cit., p. 183.62) G. Habash, Nous vaincrons, s. l., s. d. (ma Beìrut 1973), p. 30.63) Cfr. J. Ziegler, op. cit., pp. 80 e 332-333.64) E' il caso della striscia di Gaza, che per alcuni anni dopo l'occupazione del '67 vede gli uomini dell'OLP assumere ogni notte il controllo del territorio, esercitato dalle forze israeliane nelle ore di luce.65) Per il caso di Cuba, cfr. E. Che Guevara, Oeuvres, voI. III, Souvenirs de la guerre révolutionnaire, Parìs, 1977, capp. XXV e XXVI.66) Ciò non vale solo per il Terzo Mondo. E' l'esistenza di aree 'liberate' urbane che, in Europa, consente all'Irish Republican Army di condurre con continuità la propria battaglia contro l'esercito inglese - mentre l'impossibilità di costruire analoghe retrovie condanna altri gruppi armati europei al velleitarismo.67) Cfr. in particolare R Ledda, op. cit.68) "Questa atomizzazione del movimento palestinese in una decina di organizzazioni è di per sé singolare, se non unica, nella storia dei movimenti di liberazione nazionale, soprattutto se si pensa che il popolo palestinese supera appena la cifra di tre milioni di persone nel quadro di un gruppo etnico, linguistico e religioso relativamente omogeneo". G. Chaliand, Mythes révolutìonnaìres du Tiers Monde, Paris, 1979, p. 130.69) PFLP, Tasks of the new stage. The political report of the third national Congress of PFLP, Beirut 1973, p. 36.70) Ivì, p. 61.71) PFLP, InternaI rules and regulations, pubblicato in appendice a Tasks of the new stage, cit., p. 129.72) Ivi, p. 123 (art. 6).73) Cfr. G. Habash, I nemici della rivoluzione, cit.73) Cfr. G. Habash, I nemici della rivoluzione, cit.74) Cfr. F. Halliday, Il governo conservatore inglese e il Golfo Persico, in “Quaderni Piacentini”, 1971. n° 44-45, p. 110.75) "La rivoluzione palestinese, malgrado i suoi errori, è stata capace di provare davanti a tutto il mondo che esiste una causa, la causa di un popolo che non vuole arrendersi a nessun prezzo, malgrado tutte le cospirazioni ordite contro di lui da 50 anni, e questo persino il nemico deve riconoscerlo". G. Habash, Nous vaincrons, cit., p. 13.76) Cfr. G. Habash, I nemici della rivoluzione, cit. , pp. 243-244.77) Cfr. il volume Panthères Noires d'Israël, Paris, 1975.78) Su questo partito cfr. D. Meghnagi, op. cit., pp. 109 ss.79) Ivi, p. 147; E. Facchini, C. Pancera, op. cit., pp. 279 ss. Cfr. anche G. Habash, Nous vaincrons, cit., p. 22.80) Cfr. PFLP, Internal rules and regulations, cit, p. 122 (art. l).81) Cfr. PFLP, A strategy, cit., pp. 11-13.82) Cfr. G. Valabrega, Medio Oriente. Aspetti e problemi, Milano, 1980, pp. 18 ss.83) Cfr. F. Halliday, La politica di Washington nel Medio Oriente, in 'Quaderni Piacentini', 1974, pp. 7-14.84) Per un esame della politica cinese nei confronti dei movimenti di liberazione del Terzo Mondo cfr. G. Chaliand, Mythes révolutionnaires, cit., pp. 237-243. Il punto di vista del Fronte Popolare è espresso nell'articolo Full support to the Vietnamese revolution, in “PFLP Bullettin”, 1979, n° 25.85) G. Habash, No al negoziato e a uno Stato provvisorio, in OLP, Al- Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., pp. 274- 275.86) Ad esempio al nucleo originario del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale. Cfr. J. Ziegler, op. cit., p. 105.87) Commenta Habash: "Per quanto riguarda i dirottamenti di aerei, a parte quello di Zurigo che ha fatto due vittime (dei nostri, peraltro) noi ci siamo sempre preoccupati della sicurezza dei passeggeri. Nessun occidentale ha pagato alcunché a causa di essi. ( ... ) Evidentemente abbiamo violato il diritto internazionale, ma si trattava di aerei israeliani o di compagnie particolarmente legate a Israele o comunque di noti alleati del sionismo. ( ... ) Se in Occidente sono stati deplorati o hanno fatto tanta impressione, tra i palestinesi e tra le masse arabe in generale, i dirottamenti sono stati visti con simpatia; ed è questo che conta per noi". G. Chaliand, La. Resistenza Palestinese, cit., pp. 185-186.88) Cfr. L'opuscolo di G. Habash, Our code of morals is our revolution, s.l. (ma Amman), 1970, che riproduce il discorso rivolto dal leader dell'FPLP agli stranieri sequestrati, al momento di rimetterli in libertà.89) Cfr. OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., pp. 339-340. Cfr. anche G. Mury, Septembre Noir, Paris, 1973.90) Riprodotto in C. Moffa, op. cit., p. 120.
1) Cfr S. Hadawì, Idee chiare sulla Palestina, in AA.VV., La lotta del popolo palestinese, a cura C. Pancera, Milano, 1969, pp. 52-53. Per una rassegna delle principali risoluzioni dell'ONU sulla Palestina cfr l’opuscolo Le Nazioni Unite e la questione palestinese, Roma 1975.2) Per la dinamica degli eventi cfr. L. Gaspar, Hìstoìre de la Palestìne, voI. II, Parìs 1978; N. Weinstock, Storia del sionismo, vol. II, Roma 1970; S. Hadawì, Raccolto amaro. La Palestina dal 1914 al 1968, Roma, 1969, capp. VI e VII (che espone in prima persona, non senza qualche enfasi, il punto di vista dei Palestinesi stessi). Una ricostruzione sintetica vicina alle tesi del movimento sionista (fino a ignorare, in sede di bibliografia, l’abbondante letteratura prodotta in campo avverso) è in R Balbi, Hatikvà. Il ritorno degli ebrei nella Terra Promessa, Bari, 1983, pp. 129-143. Per quanto attiene alle origini della questione palestinese - la cui trattazione esula dai limiti di questo saggio - rinvio a quella che mi pare l'opera più esauriente sul tema: M. Massara, La terra troppo promessa. Sionismo, imperialismo e nazionalismo arabo in Palestina, Milano, 1979 (comprendente anche una vasta bibliografia).3) Cfr. S. Geries, Gli arabi in Israele, Roma, 1970, pp. 188 SS.; AA.VV., Dossier Palestina. Testimonianze sulla repressione israeliana nei territori occupati, Verona 1974, pp. 59-63.4) Cfr AA. VV., Dossìer Palestina, cìt., pp. 56-58. Il volume si basa su rendiconti di testimoni insospettabili.5) 1vi. pp. 57-58.6) Cfr. B. e N. Khader, La lunga marcia del popolo palestinese, introduzione a OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, Testi della rivoluzione palestinese. 1968-1976. Verona 1976. pp. 91-93.7) Ivì p. 93. Sulla resistenza dei profughi palestinesi a un' assimilazione da parte delle altre popolazioni arabe cfr. S. Hadawì, Raccolto amaro, cìt., pp. 183-187.8) Per le quali cfr. B. e N. Khader, op. cìt., pp. 89-91; S. Gerìes, op. cìt., pp. 278-299.9) Sull'episodio. citato con ricchezza di dettagli in ogni opera sulla Palestina, cfr. B. Uddine Toukan, Nella ricorrenza del massacro di Deir Yassin: 9 aprile 1948, Roma. 1969. Della strage. operata dall'Irgun e dalla banda Stern, rimasero vittime 254 persone, in maggioranza donne (35 delle quali incinte).10) Cfr. S. Hadawi, Raccolto amaro, cìt., pp. 210--211; Id., Idee chiare, cit., p. 81. Le cifre relative al periodo sono però assai incerte, e variano a seconda delle fonti.11) Sulla legislazione antiaraba e sui suoi effetti, talora paradossali, cfr. S. Geries, op. cit., pp. 190 SS. Cfr. inoltre M. B. Tosi, Anatomia di Israele. Milano, 1972, pp. 127-144; S. Hadawi, Palestine: loss of a heritage, S. Antonio, 1963; S. Geries, The legal structures for the exproprìatìon and absorbtion of Arab lands in Israel, in "Journal of Palestìnian Studies", 1973, n.4.12) Cfr. S. Geries, Gli Arabi in Israele, cìt., p. 193; E. Facchini, C. Pancera, Dipendenza economica e sviluppo capitali¬stico in Israele, Milano, 1973, p. 251.13) Cfr. G. Badi. Fundamental laws of the State of Israel, NewYork, 1960, pp. 156 ss.14) Cfr. S. Hadawi, Raccolto amaro, cìt., pp. 216-217.15) Cfr. S. A. Sayegh. La discriminazione verso gli arabi nell'istruzione in Israele, in AA. VV., La lotta del popolo palestinese, cìt.; Not two peoples - one people (intervista a Riad Al-Abìd Rasheed Abu Awad, leader studentesco palestinese), in "FPLP Bulletin", 1979, n. 28, p. 9.16) Cfr. F. Langer, La repressione di Israele contro i Palestinesi, Milano, 1977. Felicia Langer è un'avvocatessa israeliana.17) Cfr. B. e N. Khader, op.cit., p. 87; M. B. Tosi, op. cit., p. 135.18) Cfr. E. Facchini, C. Pancera, op. cit., p. 97; D. Meghnagì, La sinistra in Israele, Milano, 1980, pp. 42-43.19) Cfr. la testimonianza di A. Ben Yona in AA. VV., Dossier Palestina, cit., pp. 368-369.20) Ivi, pp. 369-370; E. Facchini, C. Pancera, op. cit., pp. 254 e 256.21) Cfr. B. e N. Khader, op. cit., p. 9322) Cfr. OLP, AL-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., p. 253. Il Movimento Nazionalista Arabo è stato spesso oggetto di ricostruzioni sommarie o denigratorie, fino a essere definito addirittura "una forma di fascismo sottosviluppato" (cfr. R Ledda, La battaglia dì Arnman, Roma 1971, p. 73). a scopi polemici nei confronti dell'FPLP. L'opera più completa ed equilibrata sul tema è però B. Kubeissi, Storia del Movimento dei Nazionalisti Arabi, Milano, 1977.23) Cfr. J. Ziegler, Les Rebelles. Contre l'ordre du monde. Mouvements armés de lìbération nationale du Tiers Monde, Paris, 1983, pp. 368 ss.24) Ivi, p. 369.25) PFLP. A strategy for the lìberatìon of' Palestìne, Amman, 1969, p.100.26) Ivì, pp. 99-100.27) Su questo personaggio - tipico esponente del notabilato palestinese - e sulla sua deleteria azione, cfr. M. Rodìnson, Israele e il rifiuto arabo. Settantacinque anni di storia. Torino, 1969, pp. 131 ss.28) Lo stesso avviene nell'intero mondo arabo, determinando un crollo di consenso popolare attorno al nasserismo e alle sue varianti nazionali. "Nel 1968, il simbolo del guerrigliero palestinese comincia a prendere il posto, nel cuore delle masse arabe, del demagogico leader militare. ( ... ) Una lunga fase di repressione dell'iniziativa patriottica e democratica delle masse, mascherata dall'illusione che regimi autoritari e burocratici possano conquistare una vera indipendenza, sta per finire. I popoli arabi lo capiscono ancora confusamente, all'indomani della disfatta. Ma lo capiranno meglio man mano che si inaspriscono le contraddizioni tra la loro volontà di combattere e la politica di camuffata capitolazione dei dirigenti". M. Husseìn, La lotta di classe in Egìtto, 1945-1970, Torino, 1973, P.284.29) Cfr. G. Chaliand, La Resistenza Palestinese, Milano, 1970, pp. 178-179. In appendice al volume di Chalìand, a dir poco ingiusto nei confronti del Fronte Popolare, l'editore italiano ha pubblicato un saggio dello stesso autore (Le double combat du Front Populaire, apparso in Le monde diplomatique del luglio 1970) in cui vengono radicalmente modificati i precedenti giudizi. A esso appartengono le pagine cui si rinvia nella presente nota.30) G. Kanafani, La rivoluzione palestinese del 1936-1939. Analisi, dettagli, retroscena (in arabo), Beìrut, 1974, p. 7. Come si dirà, Ghassan Kanafani venne assassinato a Beìrut nel luglio 1972. Quella citata è una riedizione, a cura dell'FPLP, di un saggio pubblicato pochi mesi prima della sua morte.31) PFLP, A strategy, cìt., pp.21-22.32) Questo per quanto riguarda il 1968. Già nel 1969 i moti di protesta inizieranno a investire le strutture dell'occidente capitalistico, quantomeno in Italia.33) Cfr. G. Chaliand, op. cit., p.185; PFLP, A strategy, cit., pp. 4-6.34) Cfr. R. Kalisky, Storia del mondo arabo, vol.I, Verona, 1972, pp. 39-42.35) Cfr. PFLP, A strategy, cìt., cap.XIII.36) Cfr. OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., p.235. Cfr. anche PFLP, A strategy, cìt., pp. 131 ss.; G. Chaliand, op. cìt., p. 100.37) Cfr. OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cìt., pp. 331-332.38) Cfr. PFLP, A strategy, cìt., pp. 131-132.39) Manifesto del primo congresso clandestino, in OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., pp. 286-287.40) Ivi, p. 288.41) Ivi, pp. 289-290.42) Ivi, p. 281.43) Sul FPCG cfr. OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., pp.331-333.44) Questi temi sono approfonditi in PFLP, Il Fronte e la questione della scissione (in arabo), Beìrut, 1970, che rappresenta uno dei testi teorici più importanti prodotti dal Fronte Popolare.45) Ivi, cap. IV.46) Il manifesto programmatico dell'FDPLP è riprodotto in C. Moffa (a cura di). La resistenza palestinese, Roma, 1976, pp.78-83.47) G. Chaliand, op. cit., p. 186.48) Cfr. PFLP, A strategy, cìt., p. 27.49) lvi, p. 32.50) Figura 'tipica' non equivale, naturalmente, a figura 'maggìorìtarìa' né 'prevalente'. A tale proposito va osservato che esistono profonde differenze nella composizione sociale riscontrabile, rispettivamente, nella striscia di Gaza e in Cisgiordania. La percentuale dei palestinesi ospitati nei campi profughi è maggiore nella prima che nella seconda regione, così come l'incidenza della manodopera disoccupata. D'altra parte la Cisgiordania comprendeva, prima dell'occupazione, il 48% delle industrie esistenti nel regno hashemita. Vi è dunque presente una classe operaia assai folta, che percentualmente costituisce la maggioranza della forza-lavoro attiva. Per un'analisi particolareggiata cfr. E. Facchini, C. Pancera, op. cit., pp. 279-288. Superficiali appaiono invece le considerazioni di G. Chalìand, che nega la presenza in Cisgiordania di un vero e proprio proletariato. Cfr. G. Chaliand, op. cit., pp. 194-196.51) Cfr. AA. VV., DossierPalestlna, cìt.52) Per una rassegna della legislazione israeliana tesa all'acquisizione di terre nei territori occupati, cfr. J. Kuttab, Au nom d'une loi injuste, in “Le Monde Diplomatique”, settembre 1983; M. B. Tosi, op. cit., pp. 144 ss. La. storia emblematica di una città della Cisgiordania sottoposta al dominio coloniale israeliano è narrata nell'articolo Judaizing Al Khalìl - Historical background, in “PFLP Bulletin”, 1983, n° 68.53) J. Ziegler, op. cit., p. 371.54) Può essere agevolmente generalizzata all'intero Medio Oriente l'analisi del proletariato egiziano condotta in M. Hussein, op. cit., pp. 31-39.55) Cfr. G. Habash, I nemici della rivoluzione, in OLP, Al-Fatah, FPLP, FDLP, op. cit., pp. 238-249.56) Cfr. PFLP, A strategy, cit., pp. 34-35.57) G. Chaliand, op. cit., p. 187.58) Ivi, p. 182.59) “La. nostra rivoluzione non ha carattere razzista. Non vuole gettare a mare gli ebrei, come pretendono calunniatori e nemici. La. nostra rivoluzione si batte per una reale alleanza tra tutte le forze oppresse e perseguitate all'interno di Israele, nel cui interesse dev'essere operato un radicale cambiamento rivoluzionario nella regione. L'obiettivo strategico della rivoluzione è uno Stato democratico e amante della pace, legato alla nazione araba e al movimento progressista mondiale”. G. Habash, The revolutionary task, s. l., s. d. (ma Beirut, 1973), pp. 8-9. Espressioni analoghe ricorrono in tutti i documenti de1I'FPLP, a cominciare dall'articolo 9 dello statuto.60) Sulla personalità di Leila Khaled, divenuta in seguito dirigente dell'organizzazione femminile dell'FPLP, cfr. il volume da lei stessa scritto: L. Khaled, Mon peuple vivra, Paris, 1973.61) G. Chaliand, op. cit., p. 183.62) G. Habash, Nous vaincrons, s. l., s. d. (ma Beìrut 1973), p. 30.63) Cfr. J. Ziegler, op. cit., pp. 80 e 332-333.64) E' il caso della striscia di Gaza, che per alcuni anni dopo l'occupazione del '67 vede gli uomini dell'OLP assumere ogni notte il controllo del territorio, esercitato dalle forze israeliane nelle ore di luce.65) Per il caso di Cuba, cfr. E. Che Guevara, Oeuvres, voI. III, Souvenirs de la guerre révolutionnaire, Parìs, 1977, capp. XXV e XXVI.66) Ciò non vale solo per il Terzo Mondo. E' l'esistenza di aree 'liberate' urbane che, in Europa, consente all'Irish Republican Army di condurre con continuità la propria battaglia contro l'esercito inglese - mentre l'impossibilità di costruire analoghe retrovie condanna altri gruppi armati europei al velleitarismo.67) Cfr. in particolare R Ledda, op. cit.68) "Questa atomizzazione del movimento palestinese in una decina di organizzazioni è di per sé singolare, se non unica, nella storia dei movimenti di liberazione nazionale, soprattutto se si pensa che il popolo palestinese supera appena la cifra di tre milioni di persone nel quadro di un gruppo etnico, linguistico e religioso relativamente omogeneo". G. Chaliand, Mythes révolutìonnaìres du Tiers Monde, Paris, 1979, p. 130.69) PFLP, Tasks of the new stage. The political report of the third national Congress of PFLP, Beirut 1973, p. 36.70) Ivì, p. 61.71) PFLP, InternaI rules and regulations, pubblicato in appendice a Tasks of the new stage, cit., p. 129.72) Ivi, p. 123 (art. 6).73) Cfr. G. Habash, I nemici della rivoluzione, cit.73) Cfr. G. Habash, I nemici della rivoluzione, cit.74) Cfr. F. Halliday, Il governo conservatore inglese e il Golfo Persico, in “Quaderni Piacentini”, 1971. n° 44-45, p. 110.75) "La rivoluzione palestinese, malgrado i suoi errori, è stata capace di provare davanti a tutto il mondo che esiste una causa, la causa di un popolo che non vuole arrendersi a nessun prezzo, malgrado tutte le cospirazioni ordite contro di lui da 50 anni, e questo persino il nemico deve riconoscerlo". G. Habash, Nous vaincrons, cit., p. 13.76) Cfr. G. Habash, I nemici della rivoluzione, cit. , pp. 243-244.77) Cfr. il volume Panthères Noires d'Israël, Paris, 1975.78) Su questo partito cfr. D. Meghnagi, op. cit., pp. 109 ss.79) Ivi, p. 147; E. Facchini, C. Pancera, op. cit., pp. 279 ss. Cfr. anche G. Habash, Nous vaincrons, cit., p. 22.80) Cfr. PFLP, Internal rules and regulations, cit, p. 122 (art. l).81) Cfr. PFLP, A strategy, cit., pp. 11-13.82) Cfr. G. Valabrega, Medio Oriente. Aspetti e problemi, Milano, 1980, pp. 18 ss.83) Cfr. F. Halliday, La politica di Washington nel Medio Oriente, in 'Quaderni Piacentini', 1974, pp. 7-14.84) Per un esame della politica cinese nei confronti dei movimenti di liberazione del Terzo Mondo cfr. G. Chaliand, Mythes révolutionnaires, cit., pp. 237-243. Il punto di vista del Fronte Popolare è espresso nell'articolo Full support to the Vietnamese revolution, in “PFLP Bullettin”, 1979, n° 25.85) G. Habash, No al negoziato e a uno Stato provvisorio, in OLP, Al- Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., pp. 274- 275.86) Ad esempio al nucleo originario del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale. Cfr. J. Ziegler, op. cit., p. 105.87) Commenta Habash: "Per quanto riguarda i dirottamenti di aerei, a parte quello di Zurigo che ha fatto due vittime (dei nostri, peraltro) noi ci siamo sempre preoccupati della sicurezza dei passeggeri. Nessun occidentale ha pagato alcunché a causa di essi. ( ... ) Evidentemente abbiamo violato il diritto internazionale, ma si trattava di aerei israeliani o di compagnie particolarmente legate a Israele o comunque di noti alleati del sionismo. ( ... ) Se in Occidente sono stati deplorati o hanno fatto tanta impressione, tra i palestinesi e tra le masse arabe in generale, i dirottamenti sono stati visti con simpatia; ed è questo che conta per noi". G. Chaliand, La. Resistenza Palestinese, cit., pp. 185-186.88) Cfr. L'opuscolo di G. Habash, Our code of morals is our revolution, s.l. (ma Amman), 1970, che riproduce il discorso rivolto dal leader dell'FPLP agli stranieri sequestrati, al momento di rimetterli in libertà.89) Cfr. OLP, Al-Fatah, FPLP, FDPLP, op. cit., pp. 339-340. Cfr. anche G. Mury, Septembre Noir, Paris, 1973.90) Riprodotto in C. Moffa, op. cit., p. 120.