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Letture consigliate: Roma Sovversiva. Anarchismo e conflittualità sociale dall'età giolittiana al fascismo (1900-1926)

“Io mi mangerei la coratella di Mussolini”
(Assunta De Amicis, popolana romana, 1943).

Il 2012 è un anno di ricorrenze antifasciste e anarchiche: oltre all’ottantesimo anniversario della morte di Errico Malatesta a Roma, vi è soprattutto la possibilità di ricordare, a novant’anni di distanza, gli eventi del cruciale 1922. In quell’anno tragico, dopo le giornate dell’agosto con le ultime resistenze armate in numerose città all’avanzante squadrismo in occasione dello sciopero “legalitario”, si giunse in ottobre alla Marcia su Roma che, dopo aver sancito in modo spettacolare la conquista del potere da parte di Mussolini, determinò un’ulteriore ondata di arresti, rappresaglie, assassini contro i militanti dell’antifascismo e del movimento operaio, culminata nel dicembre con la strage di Torino.

E’ facile prevedere che, sul piano delle commemorazioni ufficiali e dell’utilizzo politico della storia, la Marcia su Roma sarà l’evento che otterrà maggiore attenzione, in quanto così come in passato meglio si presta ad interpretazioni generiche attorno al valore della democrazia contrapposta alle dittature di ogni segno.
In realtà, questa visione appare abbastanza anacronistica se si pensa che l’incarico istituzionale conferito dal Re a Mussolini perché formasse il suo governo seguì modalità non contrarie al sistema democratico allora vigente e che nella nuova maggioranza governativa figuravano alcune forze democratiche come ad esempio il Partito Popolare che soltanto anni dopo si sarebbero dissociate dal regime mussoliniano.
All’interno di questa rappresentazione fuorviante dell’avvento del fascismo, s’inserisce l’offuscamento della combattiva difesa che la Roma dei quartieri proletari fu in grado di opporre all’occupazione fascista e militare della capitale, come attestano i numerosi morti registrati da entrambe le parti nei giorni della “gloriosa” Marcia delle camicie nere. Queste ultime, male in arnese e solo in virtù della protezione loro assicurata dalle forze dell’ordine e dalle autoblindate dell’esercito, poterono prendere simbolicamente possesso del centro cittadino ed eseguirvi alcune spedizioni punitive, senza riuscire a impadronirsi dei quartieri “rossi” dove arditi del popolo, squadre comuniste, gruppi anarchici e sindacalisti rivoluzionari mantenevano ancora un sostanziale controllo del territorio.
Così, nelle stesse ore in cui l’opposizione democratica e la sinistra parlamentare dimostravano tutta la propria incapacità nell’affrontare la situazione e la loro arrendevolezza nei confronti di Mussolini, la Roma sovversiva non esitava a impugnare ed usare le armi per difendere la libertà compromessa.
Anche nel più recente saggio sulla Marcia su Roma, quello di Giulia Albanese edito da Laterza nel 2006, nonostante l’impegno profuso nel ricostruire contesti politici e dinamiche degli eventi, questo aspetto risulta liquidato sbrigativamente in due paginette come circostanza marginale rispetto alle manovre dei partiti e dei soggetti statali, dimostrando per di più una certa approssimazione nell’individuare gli effettivi protagonisti dei sanguinosi scontri avvenuti in quelle giornate, generalmente e impropriamente ritenuti “socialisti”.
Per cui è davvero importante che sia stata, finalmente, pubblicata una ricerca storica che metta in luce il sovversivismo romano nella sua composita realtà sociale e politica, troppo sottovalutata non solo nella ricostruzione del passato della città, ma anche per i determinanti riflessi che ebbe sul piano nazionale; basti rammentare, in particolare, le contrapposte mobilitazioni interventiste e antimilitariste antecedenti la Grande Guerra e gli avvenimenti che si susseguirono tra il 1918 e il 1921: i moti del caroviveri, le agitazioni e le occupazioni operaie; il fermento degli ex-combattenti e dei Legionari fiumani; la nascita degli Arditi del popolo e lo sciopero generale contro il 3° Congresso fascista.
D’altra parte il sovversivismo romano, erede delle tendenze risorgimentali più radicali e del primo internazionalismo, aveva già alle spalle una storia ragguardevole e caratteristiche peculiari legate ad un’atipica composizione di classe. Infatti, diversamente dalle concentrazioni industriali di Torino o Milano con le grandi fabbriche fordiste, la classe lavoratrice romana risultava frammentata in piccole e medie unità produttive, con frequenti modalità di gestione semifamiliare. E tale condizione di sfruttamento, favorevole più all’insubordinazione che alla rivendicazione sindacale, ebbe a orientare il corpo operaio che man mano veniva espulso e marginalizzato, anche geograficamente, dalla vita sociale cittadina.
Come ben fotografato, in Roma sovversiva, da Roberto Carocci, “a un siffatto proletariato urbano mal si adattava il classico approccio socialista. Lontani dalla rigida disciplina d’industria, i lavoratori romani erano maggiormente interessati alla risoluzione immediata dei loro bisogni materiali e si lasciavano poco affascinare dalla suggestione riformista e dalla mediazione di tipo politico o sindacale. Piuttosto, per la loro particolare composizione, le classi subalterne capitoline erano facilmente attratte dalla proposta libertaria, mostrando una chiara predisposizione all’azione diretta e a forme di lotta anche violente”.
Inevitabile quindi che il punto di forza delle lotte proletarie risultasse il quartiere, con le sue complicità di classe e il coinvolgimento anche di soggetti sociali “sottoproletari”, troppo spesso ritenuti nella vulgata marxista come manovalanza disponibile per la reazione.
In tale contesto, le tendenze politiche in cui meglio si rispecchiò il diffuso ribellismo sociale e che da questo trassero forza furono soprattutto quelle con la più marcata attitudine insurrezionista, ossia quella repubblicana-mazziniana limitrofa a quella anarchica, il sindacalismo “soreliano” e la corrente socialista definibile, con le parole dell’epoca, come “spartachista”; ma sovente persino i confini ideologici e le rispettive appartenenze appaiono incerti e contaminati, soprattutto negli ambienti degli ex-combattenti e dell’arditismo.
Le diverse componenti dell’anarchismo, in particolare, riscuotevano diffusi consensi ed adesioni anche in alcuni specifici settori operai (edili, fornaciai, tipografi, tranvieri…), ma soprattutto risultava “egemone” una modalità d’intervento politico/sindacale che privilegiava lo sciopero e l’agitazione di piazza, quali assi centrali del conflitto sociale e palestre rivoluzionarie del protagonismo di massa.
Tale rilevanza, oltre ad essere testimoniata dalla cospicua mole delle schedature dei sovversivi nel Casellario politico e dai preoccupati rapporti di polizia, è riscontrabile dalla lettura della stampa anarchica romana del tempo che restituisce una conoscenza diretta, preziosissima, che mette in luce l’autentica dimensione del movimento e di ciò che più l’agitava e che, attraverso le liste degli abbonamenti, quelle dei sottoscrittori e il numero delle tirature, permette di intuirne la diffusione quantitativa e geografica.
Lavorando con grande attenzione e correttezza metodologica su questo materiale, in larga parte sconosciuto, Roberto ha ricostruito questa società “irregolare” fatta di esistenze fuorilegge, riunioni in osterie, associazioni armate, adunate sediziose e barricate in strada, ma anche animata da solidarietà, idee, esperimenti e desideri di emancipazione umana.
Non casualmente, un ventennio dopo, nelle vene della Resistenza romana ancora circolava questa tensione di riscatto e la medesima umanità fuori dai margini e senza cornice.

emmerre 
- Roberto Carocci, Roma sovversiva. Anarchismo e conflittualità sociale dall’età giolittiana al fascismo (1900-1926), Roma, Odradek edizioni, 2012, pp. 350, con documenti e illustrazioni; € 24,00.

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