P.
Clastres,
L’anarchia selvaggia. Le società senza stato, senza
fede, senza legge, senza re,
Eleuthera 2013, pp. 116.
Nel
volume L’anarchia selvaggia, appare ora, in traduzione
italiana, la seconda edizione di Recherches d’anthropologie
politique (Seuil, Paris 2012; ed. or. Seuil, Paris 1980) dello
studioso francese Pierre Castres, allievo di Claude Lévi-Strauss,
prematuramente scomparso nel 1977. Si trovano qui riuniti quattro
saggi (La questione del potere nelle società primitive
(1976); Archeologia della violenza: la guerra nelle società
primitive (1977); Libertà, malencontre, innominabile
(1976); Età della pietra, età dell’abbondanza (1976)) che
integrano e idealmente completano le riflessioni contenute nella
precedente opera dello stesso autore, La Société contre l’État.
Recherches d’anthropologie politique (Minuit, Paris 1974 ,
20112, tr. it. La società contro lo Stato. Ricerche di
antropologia politica, Feltrinelli, Milano 1977).
Attraverso
il contatto diretto con le popolazioni tribali della Foresta
Tropicale sudamericana e il confronto critico con il pensiero di
filosofi e antropologi di diverso orientamento metodologico, P.
Clastres affronta il tema dei caratteri distintivi e del sistema di
funzionamento di società che non presentano al loro interno un
centro di potere politico coercitivo separato dal corpo della
comunità. Tali sistemi sociali possono dunque definirsi anarchici in
considerazione del fatto che non hanno espresso nel corso della loro
storia e non esprimono nell’attualità alcuna forma di
segmentazione gerarchica. Si tratta di demi esogamici patri- o
matrilineari formati da un insieme di famiglie estese, da un minimo
di quattro a un massimo di venti famiglie (La società
contro lo Stato, pp. 45-52); queste collettività,
sostanzialmente omogenee e indivise, sono disposte a delegare la
propria sovranità a un loro membro solo quando si manifesta
l’esigenza di rappresentare all’esterno l’identità del
gruppo, la sua autonomia e la sua indipendenza rispetto alle altre
comunità, il che equivale a dire che il ‘capo’ ha esclusivamente
le funzioni di stringere alleanze e di guidare le operazioni di
guerra (ma mai di dichiararla). In tale contesto, il ‘capo’ viene
individuato sulla base del suo prestigio personale, della sua
autorevolezza, ma non detiene né esercita alcuna autorità, non è
arbitro né signore, non impone le sue opinioni, ma agisce in nome e
per conto della collettività cui appartiene e della quale deve
limitarsi ad applicare scrupolosamente le decisioni. L'idea di un
assetto verticistico del potere si dimostra del tutto estranea a
queste comunità al punto tale che nei loro idiomi non si rinviene
alcun termine specifico che definisca il ‘capo’; di conseguenza,
per indicarne il ruolo, in antropologia si ricorre per lo più al
francese ‘chefferie’ o anche -ma meno usato- all’inglese
‘chieftainship’. L’istituto della ‘chefferie’
risponde ad un’esigenza pratica e contingente, e la società nel
suo complesso vigila affinché esso non travalichi i limiti così
chiaramente definiti, trasformandosi in un organismo sovraordinato e
autocratico. Non si tratta di precauzioni puramente teoriche, ma di
reazioni che si sono verificate nel passato e che si possono
verificare ancora nella loro drammatica realtà. Ne La società
contro lo Stato, Clastres riporta il caso di un ‘capo’ Fusiwe
che dichiarò unilateralmente una guerra che nessuno voleva
combattere: venne lasciato solo ad affrontare il nemico e morì
durante il primo scontro (pp. 152-153). La figura del ‘capo’, in
quanto guida guerriera, richiama un altro tema assai controverso,
quello della natura e dell’incidenza della violenza nelle società
‘primitive’. Su questo terreno si affrontano da tempo tre
ipotesi: una che analizza la violenza sul piano puramente
naturalistico; un’altra che ne riconduce le origini all’interno
del sistema economico di produzione, e l’ultima che la inserisce
nella più ampia teoria dello scambio. La prima eredita dalla visione
classica del mondo dei selvaggi come mondo di natura
l’idea che della violenza come componente biologica dell’uomo.
Non regolamentata dall’autorità della legge né sublimata in forme
rituali compensatrici, la violenza caratterizzerebbe l’esistenza
quotidiana dei selvaggi in una sorta di perenne stato di guerra di
tutti contro tutti. La seconda, sostenuta principalmente dagli
studiosi di orientamento marxista, considera la violenza come una
conseguenza della precarietà esistenziale di queste popolazioni
dovuta alla debolezza delle loro forze produttive, proiettando sulle
società arcaiche l’immagine di un’ininterrotta lotta per la
sopravvivenza, struggle for life, per assicurarsi le risorse
necessarie in un ambiente naturale inospitale e ostile, sul quale i
gruppi umani sarebbero incapaci di incidere. L’ultima rimanda alle
riflessioni di Claude Lévi–Strauss, il quale, anche sotto
l’influenza dell’opera di Marcel Mauss sul dono, è portato ad
interpretare la guerra e il commercio come due facce della stessa
medaglia: la guerra sarebbe una transazione sfortunata, lo scambio,
una guerra pacificamente risolta. Di ognuna di queste ipotesi,
Clastres rileva i limiti, mettendo in luce le aporie logiche cui
ciascuna di esse conduce. Nel primo caso, la guerra viene
semplicisticamente assimilata alla caccia, il che –osserva
Clastres- se fosse vero, comporterebbe necessariamente l’ammissione
dell’antropofagia come principale causa e scopo dei conflitti
intertribali. In realtà, il consumo del nemico sconfitto in guerra
ha in generale una limitata diffusione, e, anche quando è praticato,
non sembra mai imposto da ragioni alimentari, ma piuttosto si trova
iscritto in contesti festivi e rituali, ossia in contesti
culturalmente connotati ben lontani dal piano della pura naturalità,
cui questa teoria vorrebbe assegnarli. La seconda proposta, come si è
detto, fa derivare il ricorso diffuso alla violenza dal regime di
vita precario che affliggerebbe queste popolazioni a causa
dell'assenza di un sistema produttivo. Sarebbe quindi la struttura
economica a determinare i comportamenti aggressivi e lo stato di
continuo conflitto registrati dai primi occidentali che toccarono il
Nuovo Continente. Questa interpretazione che fa derivare dal sistema
economico come struttura ogni manifestazione culturale, in quanto
sovrastrutturale, si basa su un assunto ben poco dimostrato, quello
della necessità quasi metafisica di un incessante sviluppo e di
un’inarrestabile espansione delle forze produttive. Le popolazioni
della Foresta Tropicale, con la loro economia di sussistenza,
darebbero piena dimostrazione di un’intrinseca incapacità di
potenziare la loro struttura economica e di affrancarsi da una
condizione di esistenza giudicata misera e miserabile. A questa
visione Clastres contesta la pretesa miseria della vita di queste
società, società che al contrario sembrano in grado di fornire a
tutti gli appartenenti alla collettività quanto è necessario per
soddisfare appieno i propri bisogni, coniugando stabilità ed
armonia, abbondanza e tempo di non-lavoro. Riprendendo anche i
risultati delle ricerche di Marshall Sahlins sulle economie arcaiche
(Stones Age Economics, London 1972), Clastres rigetta lo
stereotipo che vorrebbe le popolazioni di cacciatori e raccoglitori,
o anche di agricoltori ‘primitivi’ della Foresta Tropicale,
costantemente afflitti dalla penuria alimentare, dalla carestia,
dalla denutrizione, perennemente costretti a migrare o ad affrontare
le tribù vicine per sottrarre loro con la forza il cibo e le donne.
In queste società, in realtà si registra un'estesa diffusione di
quello che Sahlins ha definito il modo di produzione domestico
(MPD); caratteristica di tale modo sarebbe l’assoluta polivalenza e
interscambiabilità di ogni membro del gruppo, in un sistema che
ignora qualsiasi forma di divisione del lavoro, a parte la
specializzazione complementare del lavoro maschile e femminile. In
tal senso, la sussistenza piuttosto che come limite andrebbe intesa
come un valore positivo all’interno di un sistema di produzione
mirante ad assicurare l’autarchia di ogni gruppo familiare e la
totale indipendenza economica e politica di ogni insieme di gruppi.
L’indifferenza
verso ogni forma di surplus o di accumulo sarebbe quindi da
vedersi come il riflesso del rifiuto dello scambio: se la natura
offre tutto il necessario, rendendo i gruppi sociali autarchici e
autocratici, allora lo scambio, nella sua espressione pacifica del
commercio o violenta della guerra, viene a segnalare che qualcosa nel
sistema non ha funzionato in modo corretto. Il commercio e la guerra,
in una società che rifiuta la scambio, sarebbero quindi situazioni
anomale, innanzi tutto perché in grado di incrinare e mettere in
crisi l’ideale autarchico che sostiene queste comunità. In
realtà, nota Clastres, commercio e guerra non si collocano
esattamente sullo stesso piano. La guerra avrebbe origine, secondo
Clastres, nelle forze centrifughe che agiscono all’interno della
comunità, forze sempre presenti, che rappresentano l'agente dinamico
di questo tipo di società che, per mantenere la propria autonomia,
tende a cristallizzarsi e a prevenire l'insorgere di forme di
organizzazione ultra-tribali e statali lato sensu. La forte
connotazione identitaria delle comunità indivise le pone di continuo
in uno stato d'allerta nei confronti dell'altro, ed è appunto
questo stato d'allerta -che talora sfocia in conflitto aperto- che ha
dato ai primi colonizzatori l'impressione di trovarsi di fronte a
società sempre in stato di guerra. Osserva a proposito Clastres: "La
guerra serve a mantenere l'indipendenza politica di ogni comunità.
Finché c'è guerra, c'è autonomia. (...) La guerra è il modo di
esistenza privilegiato della società primitiva proprio perché
articolata in unità socio-politiche eguali, libere e indipendenti"
(L’anarchia selvaggia, p. 69). Indivisione al proprio
interno e dispersione nel territorio: questi sarebbero i fattori che
assicurerebbero alle popolazioni della Foresta Tropicale il delicato
equilibrio politico di una società "senza stato, senza legge,
senza re".
di Claudia Santi
uscito su: "Storia Antropologia e Scienza del Linguaggio", f. 1, 2014.