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I moti contro il caroviveri nella storia

di Chicco Galmozzi
È bastata una “spesa proletaria” per attivare la macchina mediatica e politica di criminalizzazione dei bisogni proletari.
Storia vecchia, che si ripete. A questo fine, forse vale la pena attivare la memoria su una grande stagione proletaria, per verificare anche come i protagonisti, amici e nemici, siano sempre gli stessi.
La città dalla quale prendono il via i moti contro il caroviveri dell’estate del 1917 è La Spezia.
L’11 giugno, a fronte della serrata dei grossisti di frutta e verdura contro una maggiorazione dell’imposta comunale di consumo, esplode la rivolta popolare. Contro tutte le ricostruzioni e i giudizi politici successivi, anche di parte socialista, che hanno insistito sul carattere di folla e protopolitico di un movimento somigliante più agli antichi assalti ai forni che alle coscienti (e ben disciplinate…) manifestazioni di partito, sono proprio gli operai – della Terni, della Cerpelli, dei cantieri navali e degli arsenali – che abbandonando il lavoro spontaneamente, senza nemmeno consultarsi con le direzioni sindacali, danno il via ai moti. Proprio la presenza del fior fiore della classe operaia spezzina alla testa del movimento ne qualifica il carattere politico e di classe spazzando via gli sprezzanti giudizi di plebe tumultuante espressi dai dirigenti socialisti.
I dimostranti di La Spezia vengono immediatamente affrontati dai carabinieri che aprono il fuoco uccidendo due lavoratori e ferendone venticinque, ma la violenza repressiva non ferma la determinazione di massa che si scatena con assalti e saccheggi ai negozi.
Di fronte allo stato di cose la Cigl proclama lo sciopero generale di zona – l’USI si era schierata immediatamente e senza riserve al fianco dei lavoratori in lotta – coinvolgendo Carrara, Massa, Viareggio e tutte le località della Versilia e della Lunigiana. Durante una di queste manifestazioni, a Santo Stefano Magra in provincia di La Spezia, un carabiniere cade sotto le revolverate dei dimostranti.
L’agitazione a La Spezia prosegue per una settimana, senza che le forze dell’ordine riescano a imporre lo stato d’assedio anche per i frequenti casi di fraternizzazione fra insorti e truppe, specialmente fra insorti e marinai.
Il ristabilimento dell’ordine, che non riesce alle truppe, viene imposto dai dirigenti socialisti che sbandiereranno come vittoria il calmieramento dei prezzi proposto dal sottoprefetto. Contro questa decisione si pronuncia l’Usi che tuttavia non ha la forza e il seguito necessario per riprendere la lotta.
Il 13 giugno i moti si allargano a Genova con assalti a negozi, scontri di strada e attacchi alla caserma delle guardie di polizia nel corso dei quali cade un operaio e numerosi, fra dimostranti e poliziotti rimangono feriti. Con alterne vicende, a Genova, i moti non si spegneranno che verso la metà del mese successivo: ancora il 7 luglio si verifica il fallito assalto alla Questura nel tentativo di liberare i manifestanti precedentemente fermati e trattenuti in arresto. L’assalto si conclude negativamente e i dimostranti lasciano due morti sul terreno.
Mentre non è privo di significato il fatto che i moti non si estendano a Milano e Torino, ovvero le città dove più forte è il controllo sindacale socialriformista, a Pisa l’iniziativa parte con lo sciopero indetto dai sindacalisti rivoluzionari dell’Usi.
Agitazioni e sommosse avvengono a Firenze, Bologna, Ancona, Pistoia e altre città dell’Italia centro settentrionale dove, generalmente, i dimostranti impongono ai commercianti drastiche riduzioni dei prezzi sotto la minaccia dell’immediato saccheggio dei negozi e dei magazzini. Anche a Imola la folla asporta merce dai negozi e impone la vendita dei generi a prezzo dimezzato. Anche a Roma, soprattutto nei quartieri Trionfale e Trastevere si verificano saccheggi e vendite forzate a metà prezzo.
A Firenze la merce saccheggiata che non può essere venduta immediatamente viene ammassata nei locali della Camera del lavoro. In molto casi, per mettersi al riparo dagli espropri gli esercenti stessi appongono alle vetrine dei cartelli in cui è scritto «La merce resta a disposizione della Camera del lavoro»! mentre è da registrare che nessun negozio che venda beni non di prima necessità viene assalito, ad esempio tutte le gioiellerie di Ponte Vecchio.
Per molti giorni Firenze è completamente occupata dal proletariato insorto: vengono requisiti tutti i mezzi di trasporto specie automobili e camion per il prelievo delle merci dai magazzini della campagna. Si provvede a inviare derrate alimentari alla popolazione del Mugello colpita dal terremoto.
L’Associazione Combattenti affigge un manifesto dichiarando di aderire al movimento, «stanca che i reduci dalle trincee siano più oltre affamati».
In pratica la Camera del lavoro è il governo di Firenze, ma che a questo movimento si potesse per lo meno tentare di dare un sbocco rivoluzionario probabilmente non apparteneva nemmeno alla forma mentis dei sindacalisti socialisti e il comportamento dei sindacalisti fiorentini, nel racconto di Gaetano Salvemini, è rappresentativo di ciò che accadde su tutto il territorio nazionale: «Il segretario della Camera del lavoro si recò dal Prefetto, non per dirgli che si considerasse dimesso dalla sua carica e che era cominciata la dittatura del proletariato, ma per consultarsi con lui circa la nomina di una commissione che studierà il modo migliore… per disciplinare il movimento» (1).
Il 5 luglio la Camera del lavoro di Firenze ordina la cessazione dello sciopero che tuttavia prosegue spontaneamente compatto così come pure la lotta di strada.
Ai primi di luglio si blocca completamente Forlì dove i consigli degli operai riuniti ricevono dai negozianti le chiavi dei negozi: viene nominata una Commissione operaia e cittadina che provvede a prendere possesso delle merci dei negozianti e a ridurre il prezzo di tutti i generi di oltre la metà. La truppa fraternizza con la popolazione che provvede di pane, alimentari, vini e liquori i soldati mandati di servizio ai negozi.
A Prato, Pistoia e Piombino sorgono i Soviet annonari che provvedono alla requisizione e alla redistribuzione dei generi alimentari. Tutta la zona agricola del Valdarno è in mano alla popolazione che requisisce i prodotti di intere fattorie e macella numerosi bovini. Il 6 luglio il moto si sviluppa a Empoli, Viareggio, Perugia, Arezzo, Terni, Ravenna e altre centinaia di località dove Comitati popolari assumono la direzione della cosa pubblica, calmierando e requisendo merci, decurtando prezzi e sequestrando esercizi. A Livorno a guidare la lotta è il Consiglio Generale delle Leghe che proclama lo sciopero e ordina la diminuzione del 50% sul prezzo dei generi alimentari e del 70% su quello dei tessuti.
Tutti gli esercizi che non si adeguano vengono immediatamente requisiti per azione diretta del proletariato.
Solo volendo riferire delle località dove i moti raggiungono particolare asprezza si segnala Barletta, occupata dai proletari insorti e governata per quattro giorni dai Consigli del lavoro, finché il giorno 10 la cittadina, cinta d’assedio, viene sottomessa dalle truppe.
Il 9 luglio è la volta di Brescia: qui i carabinieri sparano sulla folla uccidendo un manifestante ma sono costretti a ritirarsi di fronte alla reazione di massa. I reparti militari di istanza in città si rifiutano di scontrarsi con il popolo insorto e solo verso sera vengono fatti affluire reparti alpini con armamento pesante mentre mezzi dell’aviazione sorvolano minacciosamente la città.
Verso la metà di luglio il movimento inizia a rifluire in tutta Italia: per il governo Nitti la paura è passata e il suo Ministro Tommaso Tittoni può affermare: «Nei gravi tumulti scoppiati in varie parti d’Italia, rimasi impressionato che, per riunire le forze sufficienti a fronteggiarli, occorresse far venire guardie e carabinieri dalle regioni immuni che rimanevano così sguarnite… Più volte ebbi a domandarmi che cosa avrebbe potuto fare il governo se un movimento di rivolta fosse scoppiato contemporaneamente in tutta la penisola».
Il bilancio finale delle vittime, sottodimensionato e approssimativo, può essere certamente stimato nell’ordine di almeno una cinquantina di caduti e sempre in seguito ai moti per il caroviveri le forze dell’ordine uccidono 4 persone a Taranto, 3 a Roma e 8 dimostranti in Calabria.
A fronte di questi numeri, alcuni storici, fra i quali Salvemini, hanno parlato di una repressione contenuta e non condotta su larga scala. In realtà se in parte questo è avvenuto lo si deve al fatto che a differenza di quanto accaduto nel 1917, nella maggioranza dei casi l’esercito si rifiutava di sparare sulla popolazione e furono numerosi i casi di fraternizzazione con gli insorti: casi accertati avvennero a Brescia, Sestri Ponente, Forlì, La Spezia. Ma l’affermazione di Salvemini può non essere lontana dal vero se si considera che, anche se a macchie di leopardo, per l’arco di tempo di quasi due mesi l’autorità dello Stato fu completamente esautorata in larga parte del territorio nazionale. Tuttavia, le Camere del lavoro che in tale periodo funzioneranno come gli unici organi amministrativi riconosciuti, si rifiuteranno di costituirsi in istituti del potere proletario svolgendo ovunque un’azione calmieratrice e moderatrice.
La componente sindacale maggiormente impegnata nei moti fu quella sindacalista rivoluzionaria dell’Usi che si schierò apertamente con i gesti concreti e risoluti di santa vendetta popolare mentre la componente, pur largamente maggioritaria, legata al Partito socialista fu praticamente trascinata negli eventi dalla spinta spontanea di massa e non avrebbe potuto essere diversamente se solo si consideri che già il 4 luglio il segretario del partito, Lazzari, aveva provveduto alla scomunica ufficiale del movimento dichiarando che il partito non poteva schierarsi «con la folla e con i suoi impulsi spontanei».
Del resto, pochi mesi dopo, al XVI congresso del partito socialista, nel quale Lazzari si espresse contro la violenza pregiudizialmente premeditata e programmata, un altro dei massimi dirigenti del partito, Claudio Treves, tenendo la relazione ufficiale sui moti per il caroviveri sostenne che le masse erano state guidate «più dallo spirito di Masaniello che da quello di Carlo Marx». In verità Turati parlerà anche di teppa! Ma che non si trattasse di teppa è dimostrato dalla composizione sociale dei partecipanti ai moti: Roberto Bianchi lavorando sui fascicoli processuali custoditi negli archivi di Stato toscani ha analizzato i profili di 637 imputati per i tumulti contro il caroviveri.
L’immagine che emerge è quella di un soggetto significativamente alfabetizzato, senza significativi e diffusi precedenti penali, di estrazione proletaria, prevalentemente di giovane età e con una consistente partecipazione di militari, non solo congedati e nemmeno solo di basso grado: arditi, graduati e anche ufficiali ebbero una parte significativa nei moti il che, almeno in parte, spiega anche il ricorrere di episodi di fraternizzazione fra insorti e truppe schierate in funzione repressiva.
Ma se possibile il leader dei massimalisti Serrati, l’uomo che ambiva ad essere il Lenin italiano, fece ancora peggio sostenendo nel mese di settembre in una dura polemica con il leader dell’Usi Armando Borghi, che i saccheggiatori «non erano dei compagni, ma degli avversari» (2).
Ecco, oggi, i saccheggiatori sono mafiosi.

NOTE:
1. Gaetano Salvemini, Scritti sul fascismo, vol. III, Milano 1961.
2. Giacinto Menotti Serrati, in Battaglie sindacali, 20 settembre 1919.

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